Non ci resta che piangere, diceva quello. E divenne motto. Oggi in un mondo che funziona al
contrario, ricco di spigolose contraddizioni e deliri d’onnipotenza, pare che non ci resti che ridere.
Per non morire di noia e di sconforto.
Ho sempre fatto del sorriso un’arte: a denti stretti, a bocca spalancata, sonora sbaccanata o
davanzale fiorito di un volto sereno. Mia nonna era la donna del sorriso rassicurante. E anche mia
madre.
Esiste la terapia del sorriso. Anche il sole è il sorriso della vita, specie se di primo mattino. Il volto
di un bambino, gli occhi di un cane. I sorrisi della vita che non muore.
Ridere di gusto per tutto ciò che ci appare inconsueto è, lo insegnano i dottori della mente, uno
strumento terapeutico che ci permette di affrontare il quotidiano nel modo migliore. “Humor”, che
in latino significa umidità, liquido, è un balsamo che va diluito nei nostri stili di vita, ragion per cui
un sorriso può guarire la nostra arida vita di falliti incappottati nelle corazze dell’individualismo e
della fretta.
Se l’umorismo è l’interpretazione carnascialesca del quotidiano vivere, la comicità è secondo il
filosofo francese Bergson la pura intuizione di una contraddizione, ovvero un avvertimento del
contrario. “Non c’è nulla di comico” sosteneva “al di fuori di ciò che è proprio degli umani”.
L’uomo, avendo ancora poche armi a sua disposizione, ha scelto l’autoironia per comunicare il
proprio malessere ma soprattutto e per trovare la forza necessaria per sopravvivere, esorcizzando le
sue incapacità.
Anche Pirandello, all’ombra del suo pino nel giardino della casa al Kaos, tentò di abbozzare
la differenza fra umorismo e comicità, portando alla luce il concetto di umorismo inteso come
sentimento del contrario, ovvero come processo di identificazione con il soggetto ( l’uomo) che si
osserva; osservare l’umano suscita ilarità, mentre il lato comico è l’aspetto razionale successivo
all’azione, quello che la ragione cataloga come sentimento del contrario e ti lascia riflettere.
Ad un livello più alto agisce la satira. Forse è la più aristocratica delle tre facce divertite, ed è un
genere di umorismo che vuole suscitare ilarità e denunciare ingiustizie e soprusi, prepotenti e
malfattori. Sotto le sembianze di un Arlecchino mascherato e scanzonato, ridicolizza i difetti umani
per rimettere a posto le cose, secondo il detto latino ”Castigat ridendo mores”, ovvero correggere i
costumi deridendoli.
La satira rappresenta uno stile letterario che si esprime in una critica palese o mascherata, che viene
rivolta alla vita politica, religiosa o sociale. Spesso si è servita di una lingua tranchante, moderata
ma incisiva, ha sempre agito sulla gente incitandola alle rivoluzioni o alle denuncie. Celebri sono
gli esempi di satira espressa dalle commedie di Aristofane, oppure le satire di Orazio, di Voltaire
che usò la satira contro la religione, i privilegi e il fanatismo, sbandierando ai quattro venti la luce
della ragione.
Oggi la satira si fa più immediata perché fondata su immagini, fotogrammi e parole taglienti fatte
scorrere su schermi di cristalli liquidi.. Conta l’immediatezza, la voglia di stupire, il bisogno di
innovare. Il bisogno essenziale che vive al suo interno è rappresentato dal bisogno di parlare in
modo originale, fuori dal coro. Le tante forme di espressione che ingombrano ogni giorno le nostre
menti, i selfie, i cinguettii, i post, le condivisioni, dicono che abbiamo bisogno di mostrare chi
siamo, di convincerci che siamo perfettamente in grado di dominare il mondo, plasmandolo sotto i
nostri polpastrelli di telefoni intelligenti.
In un gesto eliminiamo, archiviamo, illuminiamo, creiamo. Ma forse non basta. Siamo sempre più
schiavi del nostro personaggio. In cerca di autore. O Copyright.
Ridiamoci sopra.