Ovaro, Carnia., malga Pozôf. Doverosa premessa: queste righe sono state composte in loco, diversamente dal solito (dove per “solito” si intenda una asettica tastiera di computer in là con gli anni, sorretta da quattro grucce e un pianale di tavolo da lavoro).
Mentre scrivo, un mix di odori mi danza sotto le narici: dolciastro di stallatico, balsamico forte di resina, antico di stiç. Alzo lo sguardo e vedo quella che oggi si direbbe fattoria didattica: galline matronali, tacchini impettiti e ben nutriti, oche guardiane, capre dal piglio filosofico e tanti bambini intorno, rapiti e divertiti da quella pennuta e pelosa popolazione. In secondo piano incede, elegante e ordinata sui pascoli a terrazza, la Bruna alpina: non è una dama altezzosa, bensì – così mi raccontano – una pregiata razza di mucca dal latte doc. In tutto questo pullulare di viventi non regnano affatto il silenzio e la pace dei monti, almeno per oggi. Questa è una giornata davvero speciale, la “festa del Malgaro”. Ovaro, più sotto, è in sagra, con tanto di bande musicali e bancarelle. Qui, alla rispettabile quota di 1583 metri, non siamo da meno e affolliamo il curatissimo tamer della malgabrindando, mangiando e conversando, inevitabilmente, di geopolitica, fisco e rapporti con le suocere. La famiglia Gortani – che gestisce e conduce malga Pozôf – ha allestito un ottimo banchetto e si fa davvero in quattro per accontentare le bocche di tutti gli avventori. Noto che oggi non sono l’unica ad aver (momentaneamente) appeso pedule e bastoni al chiodo: parecchi di noi si son avventurati qui grazie al comodo motore delle loro auto o a bordo di un Ducato che faceva spola paziente dal paese. Giornata di polse, insomma.
Pigramente seduta su un tronco a forma di scranno, cerco di assorbire, quasi, questa atmosfera per potermene portare un pezzetto giù a valle, a mo’ di souvenir, e per potermela rimirare, poi, una volta tornata con i piedi a terra o, piuttosto, più lontani dal cielo. Guai a pensare che malga Pozôf (della anche Marmoreana) sia il regno delle beatitudini! Questa realtà racconta di un passato di fatica e duro lavoro e di un presente di grande impegno per chi la vive e porta avanti, nonostante gli indubbi progressi della scienza e della tecnica, una professione che è anche una missione. Le malghe, guardarle da fuori, sembrano Fort Apache: sono un fortino e dentro c’è chi combatte per salvare e difendere il territorio, anzi, per conservare e accrescere una cultura legata visceralmente a quella terra. Senza malghe la montagna si spopola e la Natura si riprende inesorabilmente il suo, chiudendo le porte all’uomo.
…ma torniamo alla polse. Dall’alto del mio sedile/tronco sbiancato dal sole, pacificamente osservo. Nell’ottimo restauro conservativo, una parte degli edifici che formano il complesso malghivo è stata preservata tale e quale a un tempo: si tratta della vecchia casera, immediatamente riconoscibile perché spicca alta rispetto al resto dell’architettura ed ha un magnifico tetto in tegole carniche. E’ un vero e proprio museo, nella sua struttura e nei suoi arredi interni, pignatte di alluminio e cjaldiers compresi. E’ un museo ancora vivo e attivo, però; si sa, su pa’ mont no si sta mai dibant, e la stanza vecchia compie ancora, indefessa, il suo lavoro. Un filo di fumo aromatico sale, placido, dal focolare posto sul pavimento e va delicatamente ad intridere formose ricotte adagiate in panciolle su una serie di reti sospese. Tra esse riconosco quella che, un tempo, deve essere stata una dinamica rete da letto e che ora ha trovato un felice – ma affumicato – reimpiego a buon pro della scueta fumada e dei nostripalati. Mi chiedo se questo mondo – la malga, la montagna vissuta dall’uomo, il patrimonio di saper e saper fare ad essa legato – siano destinati a scomparire. Con una stretta al cuore, mi rendo conto che la risposta vira in senso pessimistico. Per fortuna un bagliore di speranza mi si accende davanti.
(continua nella prossima puntata)