Innanzitutto cominciamo con il demolire il risaputo detto della strada da l’ort: nella storia in questione, la strada dell’orto non si percorre in pochi passi di stivale di gomma verde ma in circa sette bei chilometri fatti di leggere salite, tratti sterrati, altri asfaltati, ponticelli, mulattiere un tempo percorse a sola andata da eremiti in ritiro in celle (da cui il nome di molte frazioni, quali Cella, Celante etc.) innestate su dolci e appartate colline. Niente zappe e vanghe alla mano, bensì un leggero bastone da passeggio. Non serve neppure la roncola né il cesto dove riporre i preziosi frutti colti dalla terra: libagioni varie spuntano – nell’occasione di cui si sta raccontando – vigorose non da simmetriche cunvieries ma dal piano imbandito di una tavolata allegra, apparecchiata all’aperto per dar conforto a noi camminatori.
A questo punto sarà ben chiaro che l’esperienza orticola oggetto della presente narrazione non è quella classica e comunemente intesa di coltivazione di piante eduli ma è un vero e proprio tour che attraversa gli orti e li ammira, facendo invariabilmente nascere in ogni “escursionista tra la verdura” il sano e produttivo proposito di …dissodare e mettere a coltura quel dimenticato fazzoletto di terra che, forse, ha dietro casa e che ora è regno incontrastato dei rovi e delle ortiche. (Il tutto, ormai, il prossim an, ovvio!). Già si pensa con soddisfazione a pomodori turgidi e insalate da guinness, senza voler onestamente confessare a se stessi l’insidia di mille distrazioni che faranno a breve desistere dal meraviglioso progetto e ricondurranno tristemente al colorato- ma insipido – bancone del supermercato.
Torniamo al tour. Titolo: Ator par orts. Ritrovo e partenza: di là da l’aga. Punta a Pradis – quel bel posto famoso per le grotte, ricordi? – ma fermati a qualche manciata di chilometri di distanza. Castelnovo del Friuli? Fuochino….Ecco, trovato! Paludea! Già, Paludea e le sue frazioni! Siamo nella Val Cosa, paradiso verde e fresco dove le parole “folla” e “caos” sono un nonsense.
Paludea ha un clima davvero dolcissimo, favorevole alla crescita di frutta e ortaggi, al lavorìo delle api, all’allevamento. Il sole bacia i lievi pendii e asciuga delicatamente le nostre ossa inumidite da una estate furlana piovosa assai. Un lieve venticello ci tappa la bocca alla prima tentazione folkloristica di sbuffare per il (relativo!!!) caldo e non possiamo neppure lamentarci di essere rimasti a becco asciutto perché qui si abbonda di fonti da cui l’acqua sgorga croccante e vittoriosa su ogni sete e ogni capriccio.
Ci racconta il signor Gino che è anche grazie alla sua cura e manutenzione che oggi possiamo ammirare e usufruire della bella fonte datata 1880, munita di vasca/abbeveratoio per omps e nemai e struttura architettonica a coprire, simile ad una microcappella votiva con profilo in pietra scolpita. Senza voler scomodare la filosofia presocratica greca, verrebbe comunque spontaneo pensare ad una sorta di piccolo tempio pagano che protegge il vitale zampillo e che ha come sacerdote e custode qualche operoso abitante del luogo!!!
La bellezza di questi posti è fatta di componenti preziose ma non sgargianti, né urlate. Per poterle cogliere è necessario fermarsi. Fermarsi e aprire occhi e naso. A poco a poco vien fuori la straordinaria propensione del territorio a dar frutto. Tant’è che lì si ha anche un presidio Slow Food, nato per tutelare e far conoscere la “Cipolla rosa della Val Cosa” in tutta la sua tipicità. Si aggiunga l’interesse del mondo dell’Arte, con pittori e artisti favorevolmente ispirati dal luogo. Chiamiamolo pure “tentativo di resistenza allo spopolamento”, piccolo fenomeno in controtendenza a quello più generale che sta portando i nostri bei paesini – non solo quelli ubicati in località impervie o d’alta quota – a svuotarsi, appendendo dei mesti “vendesi” sui volti delle case. Se un tempo i prati di questo cantone della Val Cosa erano minuziosamente sfalciati e le sette (dico: sette!) latterie lavoravano a spron battuto per far fronte alla copiosa produzione di latte delle innumerevoli mucche della valle, oggi la gente è poca, il traffico pure, anche quello di mandrie. Le latterie sono chiuse o, nei casi migliori, riconvertite in “centri di aggregazione culturale”. Quando, poi, anche il bar del paese si arrende, il segno dell’ abbandono si fa evidente. Eppure significativi segnali di chi resta, ritorna, resiste ci sono. Vanno incoraggiati e sostenuti. Altrimenti continueremo a scappare dalle nostre abitazioni, dai nostri borghi, dai luoghi che han dato alimento alle nostre prime radici culturali. Intraprenderemo questa fuga improvvida di notte, di nascosto e di corsa, portandoci via solo un leggero bagaglio a mano ma lasciando il nostro corredo (da tempo pazientemente composto dei suoi saperi, della preziosità del conoscere e saper fare, della memoria antica, salda base e sostegno per quella nuova) nei cassetti semiaperti, in balia della polvere e delle tarme che tutto consumano. ..e, quel che è peggio, senza aver affatto chiari né la nostra meta né qualche punto di sosta intermedio in cui poterci ristorare e rigenerare.