Ottobre è, ormai, agli sgoccioli. Questo mese porta con sé un debito di memoria collettiva, una data – 9 ottobre 1963 – che risulta punto di rottura nella storia friulana (e non solo) e anniversario significativo anche per chi, all’epoca, non era nato.
Indubbiamente, già le ottime e note produzioni di teatro civile di un recente passato avevan contribuito non poco a togliere un po’ di polvere d’ oblio da quello che era diventato un toponimo – tabù: Vajont.
Poi libri, testi di canzoni, film, concerti, incontri, convegni, mostre, film. Visite guidate. Speciali servizi sui media. Bisogna parlarne, non stancarsi mai di riprendere in mano l’accaduto e non spegnere lo spirito critico. Bisogna avere l’umiltà di guardare in faccia quanto l’umano volere può causare, in termini di disastri, stragi, dolore che ricade simpri su chei…
…ma la Cultura può salvare.
La voce dell’Attore, dello Scrittore, del Cantautore sono la nostra memoria collettiva, il nostro legame con la Storia che, passata, lascia insegnamenti al presente e al futuro. A patto che, prima, ci ricordiamo di sturarci le orecchie.
In queste righe ripercorro un ricordo, anzi, un incontro inatteso.
Arrivavo a Erto dopo alcune ore di guida sul groppone; era un pomeriggio estivo di metà agosto, con un sole che si era deciso a mostrarsi con un certo ritardo, dando spallate alle solite nubi che mi avevano fatto da cappa in tutto il mio viaggio montano. Incominciavo a sentir la necessità di scollarmi dal sedile, sgranchirmi e, magari, assaggiare quella meraviglia di crostata hand made che avevo acquistato in un piccolo panificio incontrato biel lant. Di certo non avevo l’alibi di fabbisogno calorico dovuto a sfacchinate da trekking ma… sentivo proprio di dover dare ragione al vecchio detto che “la montagna mette fame”!
Pensai che sarebbe stato ottimale fermarsi in un posto che meritasse la pena di una piccola visita, anche a costo di posticipare il mio rientro serale. Nasceva così l’idea di far tappa a Erto: un po’ per caso, un po’ per destino.
In verità, da tempo mi ripromettevo di andarla a vedere, Erto, per dare un volto alla mitica Osteria Gallo Cedrone dei racconti di Corona (altrochè Roxy Bar!) e, soprattutto, per capire dal vero quanto profonda fosse la pena che aveva motivato la definizione di “fantasmi di pietra” in riferimento a quelle povere case a brandelli rimaste dopo il 9 ottobre 1963, data dell’immane tragedia.
Fantasmi di pietra.
Con la violenza dell’onda mortale, neppure i fantasmi delle persone avevano avuto il tempo di rimanere. Liquefatti anche quelli. Persone diventate solo un vuoto nel giro di pochi istanti.
Gli unici fantasmi che, ora, in qualche modo, fisicamente fan sentire una presenza e tracce di vite passate son proprio quelle pietre, quelle quattro case scorticate e nodose rimaste a guardar noi che passiamo; l’effetto, al rimando della loro immagine, è quello di chiodi nei nostri occhi.
Ma ritorniamo, per un attimo, alla crostata.
Appena si arriva a Erto si trova un parcheggio che invita a lasciar l’auto e a proseguire a piedi per inoltrarsi nelle strette viuzze del paese vecchio. Zona ideale per la mia dolce sosta, dunque. Ne approfittai senz’altro. Appena aperta la portiera dell’auto la mia attenzione fu catturata – ma lo avevo messo in preventivo – dal fantasma che scorgevo a pochi metri da me: un edificio parecchio in rovina che, in ogni sua piega, rappresentava fortemente il silenzio e la desolazione. Quella vista quasi immobilizza, anche perché lo sguardo è, poi, trascinato oltre, verso la valle, verso il basso, a immaginare quei milioni di metri cubi di fango quando ovunque volavano e tutto coprivano.
Da quella terribile immagine nel mio pensiero venni scossa…da un provvidenziale e tenero muggito! Meno male, finchè c’è mucca c’è speranza! Un muggito sa di cosa viva, di uomini che ancora passano di qui e vivono e lavorano; di esistenze che si oppongono alla rovina e di braccia speranzose che continuano a spendere le loro energie in quel piccolo paesello che non vuol mollare. Quella benedetta mucca parla di chi, per Erto, non solo è riuscito a non soccombere del tutto alle grandi sofferenze e al trauma psicologico, economico, morale, sociale, ma vuol anche tentare di resistere all’abbandono, allo spopolamento della montagna.
Ne ho le prove: piccole, ma ci sono.
La prima è una scena che mi si era parata davanti mentre mi addentravo in paese: un uomo, aiutato dai figli, stava curando la sua casa. La stava sistemando, risanando parti che avevano bisogno di una mano riparatrice che dette loro nuova salute e nuova forma. Come lui, anche altri, in quella viuzza, avevano fatto altrettanto: qualche segno di rinascita e recupero architettonico del paese vecchio c’è, dunque, pur nel gran lavoro generale che resta da fare. Si veda anche la Casa Comunale, in tutti i suoi colori e intonaci rimessi a nuovo! Coràgjo!
La seconda prova è una donna del passato che attende ogni visitatore che decida di giungere fino alla fine della vecchia strada. La fèmena non è molto alta di statura (come tanti, un tempo); l’hanno posata su un basamento perché ci guardi dall’alto. E’ fatta di metallo ma la sua tempra dev’esser stata ancora più forte del materiale che la costituisce: come avrebbe fatto, altrimenti, a sopportare le grandi fatiche di viaggi a piedi giù in pianura e pa’ valada, a tor pal mont, carica e stracarica di casse, cesti, cassettini, merce di ogni genere da vendere? “Così carica da non passare attraverso le porte”, dice la targhetta posta ai suoi piedi.
Sto parlando della Donna Ertana, la venditrice ambulante che passava mesi e mesi lontano dal paese in quella disperata lotta per la sopravvivenza che noi, oggi, neppure immaginiamo nella sua immensa durezza.
Davanti a questo monumento ci si ferma, silenziosi, in scolte.
Autunno 2014
Rachele Pellegrinuzzi
In foto: In scolte de tô fadie.