Parliamo di Gemona non solo e non necessariamente per parlare dal Orcolàt dal Setantesîs.
Parliamo della natura che circonda la bella cittadina: una natura altamente appagante e facilmente esplorabile per larghi tratti. Così piacevole che ci si chiede se sia sufficientemente conosciuta ai non autoctoni. Se così non fosse, bisogna rimediare. E andiamoci, allora! Non costa nulla (benzina e calorie a parte, chiaro), i cartelli ci sono e segnalano bene da che parte dirigersi, il tracciato è una comoda e ampia stradina sterrata che, in parte, diventa addirittura acciottolato, la pendenza è soft (tre – quattrocento metri)…ce fasìno inmò ca?!
Se, poi, ci si è organizzati per tempo, c’è la Comunità Montana del Gemonese che, affidando la guida alla Cooperativa “Farfalle nella testa”, pilota la facile escursione. Se, ancora, si è consultato il calendario Federazione Italiana Amatori Sport Per tutti, si può partecipare alla marcialonga annuale che si tiene a inizio dicembre. In alternativa, si può sempre andare per conto proprio, in sella ad una mountain bike o semplicemente a bordo delle suole delle proprie scarpe. Non serve la calzaturina tecnica da salasso finanziario, basta un paio di onesti scarponcini e…un ombrellino scaramantico! O sin in Friûl, cuatri gotis a puedin simpri scjampâ!
Partiamo da Ospedaletto di Gemona, poco distanti dal Priorato di Santo Spirito; narrano che il sito fosse molto noto sin dall’antichità come meta di pellegrinaggio e come luogo di cura. L’edificio ha una storia importante, dunque, e meritevole di futuro approfondimento ed esperienza di visita: ecco, allora, che estraggo dalla tasca il metaforico fazzoletto e gli chiedo ancora posto per il classico nodino e per un “ritornerò” promesso quasi a mo’ di fioretto. Mi guardo, comunque, intorno e mi accorgo che Ospedaletto è una frazione allegra e accogliente, con una ariosa via centrale e un discreto viavai di persone che la anima.
Oggi, però, si va per boschi e per paesaggi relativamente poco antropizzati. Dicono che da queste parti ci sia un lago (un lago a Gemona???) e lo scopo di oggi è proprio quello di raggiungerlo!
Partiamo ufficialmente da un ampio ghiaione che racconta della qualità del cuscino su cui si siede Gemona (un cono da 2 km per 4) e veniamo a conoscenza del lavoro compiuto dall’uomo al fine di mettere in sicurezza la città stessa e l’alveo del vicino torrente Vegliato. Accanto alle opere idrauliche – delle quali le classiche “briglie” sono quanto salta subito all’occhio – si scorgono piantumazioni di pino silvestre e pino nero, volute in un passato non certo remoto per trattenere l’instabile suolo. Batuffoli bianchi di processionaria – qua e là ancorati a rami e punte – richiamano il cromatismo candido delle ghiaie ma, cupamente, minacciano la salute degli alberi che li ospitano.
Camminiamo, curiosi, con un occhio in avanti e uno in alto (Picasso ne gioirebbe!); chiediamo alle nubi gonfie di trattenersi per qualche oretta e di lasciarci godere la nostra uscita ossigenante. Pare che un tentativo di precipitazione frigga sulle nostre fronti ma uno stato di complice omertà generale nega l’evidenzia e, tutti insieme, decidiamo che “ah, non è niente, anìn indenant!”. Alla fine, la nostra determinazione alpina ci premierà, mancul mâl.
La stradina ben battuta si srotola invitante ai nostri piedi, per poi salire un po’. Alla nostra destra ci accompagna una frana scura e parzialmente irretita da vegetazione; sullo sfondo c’è la montagna, con le sue righe, le sue pieghe, le rughe delle fatiche geologiche patite e della voglia impercettibile di muoversi, sgranchirsi e far cambiare sempre volto alla superficie del nostro piccolo pianeta. Osservo e concludo sbrigativamente che a son robis plui grandis di noaltris: la Montagna guarda l’Uomo – formica e sorride, a volte ironica, a volte intenerita, mentre decide se accoglierlo bonaria o masticarselo un po’ e soffiar fuori dalle sue fauci quei quattro ossicini. Oggi sembra benevola, ci regala anche qualche ciuffetto di erica bianca e un omaggio di ciclamini e fragoline sopravvissute all’autunno e agli acquazzoni.
A proposito di acqua, distogliamo lo sguardo dal mondo della onnivora roccia e lo indirizziamo alla nostra sinistra; lì, pressoché in contemporanea, tutti e sedici i nostri occhi colano a picco come pallini di piombo nel celeste liquido del Tiliment, visibilissimo nel suo alveo. Abbracciamo in un solo batter di ciglia tutta la piana, comprendendo anche il Colle di Osoppo che spunta, tondo come un panettone, nella distesa orizzontale. Il paragone prenatalizio è arricchito da zuccherose e piatte nuvolette (innocue, pare) che lo circondano a metà della sua altezza, avvolgendolo in un’atmosfera quasi sospesa.
Il cielo non è certo limpido – il sole se n’è andato pal mont già da giorni – quindi ogni sagoma naturale o artificiale si innesta in un sostrato grigiastro, misto di umido, nebbiolina, incertezza di fine anno. Il panorama risultante, sfumato e quasi ambiguo, lascia spazio all’immaginazione che lo popola di vicende tratte dai racconti dei tempi passati. Si pensa, allora, a quando uomini più antichi dei Romani si ritrovavano a dover attraversare le nostre zone pedemontane e a trovare una via buona (che, poi, è la stessa gentile stradina da noi oggi percorsa!) per evitare le immense distese d’acqua che avevano invaso le terre più basse.
Ma… cos’è quello strano profilo che si staglia in un orizzonte a noi piuttosto vicino? Senza scomodare Pinocchio, Giona, Moby Dick e mille altre storie legate ai mostri degli abissi, chiariamo subito che il nostro non sembra particolarmente vorace e ci mostra solo la schiena: il dorso del cetaceo, infatti, ci si presenta innanzi. Essere un po’ riservato, a quanto pare, dato che altro di sé non ci vuol proprio lasciar scorgere. Tipo silenzioso e piuttosto statico: pare arenato, anzi, conficcato col muso nel fondale! Ha, forse, subito una metamorfosi ed ora è un rilievo arrotondato dal nome altrettanto dolce: si tratta del Monte Cumieli. La sua forma testimonia l’instancabile erosione che, fino a 10.000 anni fa, il ghiacciaio del Tagliamento esercitava, dall’alto dei suoi ben 800 metri.
La veduta del Cumieli è suggestiva e invita a proseguire il cammino, promettendo altre felici sorprese, non necessariamente zoomorfe. Una cosa è certa: quando l’uomo comincia a dare un nome agli oggetti naturali che compongono ambienti spesso da lui frequentati, simbolicamente stringe una amicizia e li identifica in maniera univoca. Ogni elemento diventa, così, portatore di specifiche caratteristiche e significati. Ne troveremo conferma a pochi passi di distanza, quando scorgeremo il Clap da l’Agnel.