Per diventare amici bisogna guardarsi negli occhi, nei laghi cerulei o scuri come una notte stellata.
Ma una volta entrato sei in trappola. Una radiografia per presentarsi, per accogliersi. Per sempre.
Mia nonna diceva che i cieli di dicembre sono i più luminosi, i più magici. Oggi la giornata non si lasciava penetrare da barlumi di cielo o di speranza. Una coltre di giorno insignificante, come se fosse un martedì qualsiasi.
In realtà mancano due giorni a Natale.
Mi sono trovata veicolo di qualcosa di grande realizzato da una grande energia e da uno smisurato amore per la vita da un gruppo di persone chiamate a dare una briciola di aiuto a chi sta vivendo un calvario per nulla metaforico, reale e pesante come un macigno.
La forza della condivisone e dell’amicizia.
In questo martedì quasi banale mi aspettavano una casa piena di calore, di buon profumo di pulito e di ordine, di muri colorati,una bimbetta di sette anni e la magia del suo primo giorno di vacanza, una maestra- moglie piena di coraggio e voglia di spaccare il mondo con il suo sguardo vivo e un uomo con gli occhi belli e dolci, mobili, parlanti, scrutanti e pieni di risposte. L’emozione non ha voce e io ero lì piena di emozione e quasi muta di fronte alle parole che uscivano dai suoi occhi.
Stefano e Paola mi hanno aperto le porte sulla loro vita quotidiana, spalancando senza pudore il loro dramma iniziato tredici anni fa: Stefano Marangone, bomber di livello dal cuore nerazzurro, originario di Santa Maria di Sclaunicco ma ora residente a Rivignano, ha soli 36 anni quando si ammala di SLA. Senza scampo, in modo repentino e senza possibilità di dire “passo”.
Una malattia bastarda, subdola e poco conosciuta, rara ma capace di annientare il malato e la famiglia, carica di pesi enormi come la necessità dell’assistenza continua, di dispositivi medici costosissimi e soprattutto della feroce indifferenza della gente del mondo che continua il suo carosello quotidiano. Se ne parla poco e si tende a dimenticare, una volta usciti dalla prima sensazione di stupore conoscitivo.
Ne ho sentito parlare due anni fa in un’occasione sportiva legata al mio paese e al mio club. Poi le strade della vita hanno intrecciato i loro nodi, i loro incontri di persone, hanno convogliato e unito, tessera dopo tessera, filo dopo filo. Come un mosaico o un arazzo.
Una volta entrata nella stanza di Stefano-ci sono entrata in punta di piedi per non voler invadere il suo mondo- mi hanno colpito le pareti arancioni, la cura dei dettagli, un albero di Natale con delle decorazioni fatte a mano, le magliette dell’Inter, quella del Capitano Zanetti, una bambina, la nipote Margherita, felice per le vacanze finalmente giunte. Ma soprattutto al normalità di una casa e di una routine come se in quel letto non ci fosse una persona immobile, collegata ad un computer per poter comunicare col mondo attraverso il battito delle sue ciglia. Quando ho incrociato Stefano negli occhi mi sono sentita nel posto giusto, grata alla vita per le emozioni che stavo provando, per l’enorme senso di infinito dentro il mio cuore e sopra la mia testa. Ho pensato alle stelle, ai cieli di dicembre, non cupi, non coperti ma scintillanti. Ho pensato a mia mamma e a quanto la vita possa essere sublime ma maledetta. Ho fatto alcune domande a Stefano e ho atteso che il suono metallico del computer emettesse le sue parole: sue, volute dal suo cuore, dalla sua volontà. Il battito del cuore dettato dal battito di ciglia ad una macchina. Il ritmo della vita che non si ferma. Ho pensato a quanto si può dire solo guardandosi negli occhi, al miracolo che unisce la vita e la fa continuare. Non so chi mi ha portato lì. Una volta qualcuno disse che “la vita è l’arte dell’incontro”. Si lega e si intreccia per resistere all’inevitabile fine, per non soccombere.
So che Paola, che è una collega ma che ho conosciuto solo oggi di persona, mi ha commosso e insegnato che l’amore non si risparmia e che non basta fare l’infermiera per assistere al marito malato. Lei è una donna piena d’amore e lo coinvolge nei discorsi, nei profumi, nelle iniziative, nelle foto. Quella è casa loro ed io ero un’ospite passata per guardare in faccia alla malattia senza scappare.
Ma lì non ho trovato una stanza di ospedale ma un giardino pieno di fiori. Mi sento piccola però ciò che ho toccato mi ha inondato di luce e di vita, di coraggio e senso di responsabilità. Non si può non vedere, non si può non ricordare, non agire.
Ho trovato il senso del Natale e sono uscita arricchita, sentendo un brivido e una voglia di piangere di gioia. Avrei voluto telefonare a mia mamma ma da lassù, i costi della telefonata sarebbero stati stellari. Ma lei c’era.
Questo incanto deve continuare e sento profondamente l’urgenza di testimoniare e l’impegno a non lasciarli soli.
Grazie Stefano per avermi accolta come amica. Quando si entra negli occhi è per sempre.
Con affetto, Biancamaria