Una pugnalata. Dritta al cuore.
Le immagini scorse ieri sera, viste e riviste mille volte negli ultimi trent’anni; la voce di Bisteccone Galeazzi che lo intervista dopo la rete alla Roma e la corsa sotto la Nord, le punizioni in rossonero e bianconero, la mortificazione di tanti e tanti guardian di porta; la rovesciata di San Siro, uno stadio che si alza in piedi ed applaude…
E le parole.
Di Franco Dal Cin, artefice (assieme al friulano-brasiliano Lamberto Giuliadori) dell’operazione; di Enzo Ferrari, il quale ci fa male confermando l’esistenza, all’epoca, di un progetto-scudetto biennale basato sul Galinho ed una doppia campagna di rafforzamento, inclusa una piccola stoccatina (“mi mandarono via perché ero troppo giovane per allenare e Zico aveva fatto 19 reti in 23 partite; l’anno dopo ne arrivò uno vecchio (di allenatore) e Zico non si ripeté…”) alla dirigenza dell’epoca. Di Enzo Cainero, Monsieur Zoncolan, accompagnatore in panca di Ferrari in quel campionato, con i suoi aneddoti evocativi (“Galeazzi, laziale, ci incitava a segnare contro al Roma; alla rete di Zico fece un balzo e ci travolse”), l’arbitro Facchin e le bottiglie di refosco nascoste nelle valigie in un viaggio per Rio. E il presidente dell’Udinese Club di Orsaria, dedicato a ‘O Rey de Rio, che conferma come la modestia friulana abbia fatto breccia nel cuore del campione.
Lo sapevamo.
Che questa, fra tanti dubbi ed incertezze, era divenuta patria adottiva per Arthur, pur nell’opposita complessità delle due sponde nella sua carriera (tralascio la parentesi nippo-spettacolare): tanto calda, affollata, invadente la torcìda rubonegra, la raça cui il Galinho appartiene per nascita e natura; quanto mite, introspettiva, rispettosa quella biacca e carbone, abituata a poche parole e tanta sostanza, ma capace di far proprio un ragazzo moro dai piedi fatati, considerandolo un fratello, uno zio, un figlio. Berretti sventolati in alto in segno di giubilo, quelli carioca; ben calcati sulla testa quelli friulani: due popoli, la ìnt e as povo brasileiro, uniti nella convinzione di avere avuto, di avere ancora un amico il cui sorriso, almeno quanto le magìe in campo, sarà per sempre.
Zico e Maradona. El Pibe de Oro lasciò traccia indelebile, vinse col Napoli e giocò spettacolarmente sette anni con i partenopei; nel 1986 portò di peso (e di mano) l’Albiceleste al titolo mondiale messicano, proprio mentre il Galinho sbagliava un rigore che costava la qualificazione ai verdeoro brasiliani. Ma se oggi, dopo trent’anni, si dice Maradona si pensa sì ad un talento impareggiabile, ma anche ad un comportamento fuori dal campo (stupefacenti, figli non riconosciuti, più recentemente fucilate a giornalisti sgraditi) sempre e costantemente sopra le righe. Arturo subì dal dott. Buonocore l’accusa per evasione fiscale (un pateracchio, lo definirebbe un illustre giureconsulto di mia conoscenza) ma nemmeno l’uscita dall’Italia, ieri sera evocata, scortato da due carabinieri offusca la figura di un uomo vero, di specchiata onestà, dall’umanità contagiosa, intelligente colto curioso, family man come tutti noi siamo.
E per questo, pur avendo vinto zero, ringrazio Eupalla per avermi dato, quattordicenne, la possibilità di vederlo giocare dal vivo.
Ieri ho scritto di un figlio maschio che non ho avuto e cui avrei parlato del mio calcio, e lui del suo: Zico è il mio calcio. Anche se i miei idoli erano giocatori di sofferenza come Zé Pasquale Fanesi, la poesia che oggi gli attuali tiranti-calci-ad-un-pallone bianconeri hanno disperso è nella finta con cui evita Faccenda e segna la sua prima rete italiana.
Grazie ad Emiliano Foramiti, instancabile segugio, che ha speso giorni ed energie per sintetizzare in 150 pagine trent’anni di emozioni; ogni tifoso dovrebbe tenersi in casa una copia del libro, e guardarlo e sfogliarlo dopo, che so, una gara tipo Parma-Udinese di dieci giorni fa.
L’ho lasciato per ultimo: Lorenzo Petiziol. Cantore, vero, delle cose bianche e nere, ieri sera (professionale come sempre, s’intende) ha lasciato trasparire emozione e commozione, inframezzati dal solito sense of humour che gli riconosciamo. Mi pregio d’esserne amico, sebbene ci si veda meno di quanto vorremmo. Il fraterno abbraccio che ieri sera gli ho riconosciuto lo replico, virtualmente, dicendogli che in questo gesto comprenda tutti coloro i quali, nel campetto del paese, hanno sognato e segnato sperando, credendo di essere il killer.