Dev’essere il DNA; forse er buco ner’azoto. Saran magari le scie chimiche, ma non riesco ad affezionarmi ad un campione, di quelli belli alti fotomodelli, quelli che non sbagliano mai e si accompagnano con le donne più desiderate.
Dell’Udinese-Ajax di Giacomini il mio cuore pendeva, e lo dissi più volte, per il guerriero Fanesi. E poi più tardi Zico immenso, ma quell’Urban…
E più recentemente, colgo fior da fiore, gente come Giampietro Montesano, lo sfortunatissimo Gigi Galbagini, la testa ricciolcrinita di Federico Rossi; Roberto Russo, che a Udine segnò mi pare una volta sola, in un 3-2 contro non ricordo nemmeno chi…
Più recentemente, fui felice quando un pennellone téutone di nome Karsten Jancker scese di categoria e di latitudine, accomodandosi in Friuli con la fida Natascha e lasciando la maglia nueve del Bayern di Monaco. Ero affezionato a El Pampa, alla sua arrampicata masochistica sulle reti che all’epoca dividevano la Curva Nord dal campo quando mise nel sacco la difesa della Juventina di Venarìa Reale, ed assieme a Johnny Bachini pareggiò il doppio mortale vantaggio dei gialloblù ospiti. Ma Jancker era centravanti da Champions, qualità e potenza in un metro e novanta di scarsicrinita precisione germanica.
Appunto.
Due reti: una a porta vuota contro il Chievo, e annesso pianto liberatorio; un siluro al volo dal limite, al novantesimo di una bloccatissima partita contro la Reggina. Entrambe sotto l’arco del Friuli. Nessun rimpianto quando se ne tornò a casa, nella biancorossa formazione della quasi impronunciabile citta renano-palatina, Kaiserslautern…
Ma voglio flagellarmi ancor di più: parliamo di oggi, più o meno.
Cause perse nell’Udinese post-Braga ne annòvero a bizzeffe: non me ne bastava più una l’anno, adesso accoppio. Triplico. Pokerizzo.
Maicosuel mi toccò per la storia personale: un menino de rua, quella casa regalata alla madre con i primi proventi del suo talento, l’arrivo a Udine con il pesante appellativo di Màgo… Mi (dis)piace pensare che quel cucchiaio sia stata una porta scorrevole nella storia friulana di Reginaldo, un episodio da cui non si sia più ripreso e per il quale il pubblico, tutto sommato, non lo abbia mai perdonato. Diméntica, la falange biancanera sugli spalti, delle nefandezze di un’altra causa persa come beep beep Armero…
Un paio di reti in campionato, una in coppa contro l’Internazionale, poco d’altro prima che il Mineiro gli desse un’occasione. Oggi mi dicono che i minatori lo abbiano spedito per un anno negli Emirati, a Sharjah. Ormai ha trent’anni, quel che ha fatto (poco) ha fatto. Ci avrei scommesso, avrei perso.
L’ultima, la più eclatante delle mie geniali cause perse, gioca ancora con i friulani e si chiama Guilherme dos Santos Torres, in arte ‘O Carcamagno. Appena arrivato mi suscitò buone vibra: passo felpato, testa alta, palla messa a dovere per i compagni. Alla prima di campionato contro l’Empoli, lancia spesso Totò in porta con illuminanti tocchi ambidestri.
Siccome sono una testa di calcio, nonostante molti colleghi mi dicessero che pareva veloce come uno di quei pensionati che assistono critici ai lavori stradali, imperterrito professai la mia guilhermitudine, sicuro che fra le abili mani di Stramaccioni e soprattutto di Stankovic sarebbe presto entrato in un’esplosiva forma, la quale accoppiata alla sopraffina tecnica ne avrebbe fatto il playmaker più desiderato del campionato.
Assicuro ai lettori e soprattutto alla mia famiglia che tutto ciò è frutto di insipienza calcistica, non mai di assunzione illegale e pericolosa di sostanze psicotrope; il mondo calcistico attorno a Guglielmo accelerava, lui rallentava; si incupiva, sbagliava anche il più elementare dei passaggi, alla fine rimbalzava fra il comico ed il pietoso e le risate dei colleghi attorno a me le sentivo mie: ridevano di me, della mia ignoranza e della visionarietà sciocca nel non capire che questo non era campionato per lui.
Attesi; via Strama, dentro un sergente di ferro. Mi dissi che forse era questione di tempo, come per molti brasiliani (pensai ad Amoroso); il precampionato lo disputò decentemente, prima di infortunarsi. Ma già lo presi con le molle, mémore io (scemo ma non poi completamente) della delusione precedente. Lo attesi, mi sorbii una nojosissima partita dell’Udinese primavera (il gruppo di Mattiussi ha di certo buoni elementi, grandissimo spirito ma non ha gioco: quando si dice la continuità societaria…) fino a quando, dopo il primo vero contrasto (e già aveva aperto due contropiedi avversari) lascia il campo claudicante.
Ed è subito ieri: il centrocampo è suo, Lodi va in panca; ha a fianco Kuz e Badu, due rocciosi che possono dargli qualche istante in più per ragionare. Tempo che Guilherme usa, maledetto me, per passare palla regolarmente agli avversari. O tirare punizioni ad altezza-il-mio-amico-Arnold quando tutti si piazzano sul secondo palo. Mette una buona palla per Wague che incorna fuori, poi esce fra pochi applausi e ancor meno rincrescimento di chi vede entrare Lodi.
E io penso che in fondo, numeri e gare alla mano, Torres è ‘sta cosa qui: una barba che pare quella dipinta dell’amico di Big Jim; un passo ormai neanche più felpato, solo incerto; e sessantasette passaggi sbagliati su cento. Molti dei quali, va precisato, con raggio inferiore ai dieci metri.
A quarantasei anni e con un po’ di allenamento, come lui potrei giocare anch’io. Forse durerei qualche minuto in meno (in campo, dico, niente allusioni) ma sicuramente indovinerei più tocchi per i compagni di lui.
Lui: ennesima causa persa. Ormai mi debbo rassegnare, battezzo con più facilità un giocatore di basket che uno di foot-ball. Cause perse, causa mia: che deliro per questi imbolsiti pedatòri modestamente impostati, che santìo quasi stessi giocando la carta sbagliata nel peggiore dei Bar Sport della provincia friulana, attorniato da vecchi dalla testa scossa a dirmi “ma no che lì! Daigj el scartìn, no?, cocàl!”.
Mercoledì ad Empoli incarico ufficialmente Guilherme di stupirmi. Ma non si illuda: io non ci casco più. Non sarò il bowiano avvocato che picchia la persona sbagliata, ma neanche uno spettatore del più strano degli spettacoli: quello in cui da quasi tre anni una ventina di ragazzi vestiti di biacca e carbone non riescono a far rotolare la palla nella maniera dovuta.