Cominciamo da sud, dalla facciata della villa baciata dal sole.
La orna e la adula un giardino,proprio quello che si vedeva dal balcone. E’un tipo distinto, ben curato e pettinato; al centro vi è, a mo’ di scriminatura, un lastricato centrale di pietra fiancheggiato da tutto quello che Vi potete aspettare in un lûc tant biel: statue, fiori, vasi e le immancabili siepi di bosso, piccoli e amorevoli labirinti vegetali in cui far perdere brevemente lo sguardo e distrarsi davvero dal marùm di tante brutture quotidiane.
La grazia e il buon gusto conservati con cura costante e sapiente vengono così trasmessi a noi contemporanei come in una trasfusione di preziosissimo sangue. Fiotti di positivi spunti ed energie inaspettate pulsano e ci aiutano nello sforzo immane richiesto per conservare la fiducia nel Domani e nell’Uomo quale creatura capace non solo di violenza e tortura ma anche – e soprattutto – di creare splendore.
No, no, cari Lettori! La nostra non è voglia di piangerci addosso; oramai o sin ducj doventats granduts e siamo consapevoli che davvero ogni epoca ha avuto le sue magnagnis, i suoi babaus, i suoi “mammaliturchi”. Sappiamo anche che, all’epoca dei nostri nonni e bisnonni, queste belle ville che tanto ora ci incantano significavano duro lavoro di braccia contadine, fatica, compensi miseri e via indenant.
Ma non è alla lotta di classe che volevamo arrivare.
Ci fermiamo alle felici apparenze, all’esperienza estetica del lûc in cui siamo e che – lungi dall’essere un evento superficiale e consumistico – si rivela avere effetti probiotici inattesi. Al pari di una cura ricostituente pronta all’uso e senza controindicazioni da sovradosaggio, questa visita in Fondazione De Claricini Dornpacher è di gran sollievo, provare per credere: sentirete subito i vostri sensi ammansire e il cûr cuietàsi e doventâ plui bon.
Cerchiamo di capirne il perché e comprendiamo che ogni passo che, in generale, si ha la fortuna di fare in un luogo pregno di arte e di storia diventa un cercare di raccogliere prima – e mettere insieme, poi, con santa pazienza – briciole di fiducia e stima nel genere umano.
Un lavoràt!
Ecco che quando vediamo saltâ par aiar lis bieliecis dal mont, quando assistiamo inebetiti alla polverizzazione rabbiosa di statue e testimonianze di civiltà, tutto il nostro gran lavoro viene vanificato in un marilàmp e ci sentiamo così…così…inefficaci? Eufemismo, dite? Dobbiamo mutarlo in “falliti”?
Lo sconforto facilmente cattura ma bisùgna dài cuintri e no molâ. Se ci arrendessimo e lo facessimo, compiremmo brutale opera alla stregua di chi infierisce su un corpo già esanime. Bisùgna lâ indenànt e assorbire nuovo le energie, cercare assiduamente testimonianze che l’Uomo sa compiere il Bene, nel senso che è in grado di agire anche in favore della Vita.
Proviamoci, allora, nel nostro piccolo, anche in questo immergerci in un luogo fatato come quello che è sede della Villa De Claricini.
Se ripercorreremo mentalmente i passi fatti nel giardino e nel bel parco nei pressi della villa, sentiremo con ancora maggior intensità che quello stare è un bon stâ, un privilegio che ci racconta mani di uomini che non avevano torturato innocenti, bensì che avevano costruito, edificato, trasformato la materia grezza e bruta in forma.
Scopriremo poi, se parleremo con la gente del posto, la storia dei Grandi che la abitarono e dei Piccoli che per loro lavorarono. Nella memoria di parecchi abitanti di Bottenicco, frazione del Comune di Moimacco, ad un tir di sclopa da Cividât, resiste ancora il ricordo della contessina Giuditta e di molti aneddoti legati a suo padre, il conte Nicolò, e al fratello.
La visita accompagnata attraverso molte delle stanze della villa aperte al pubblico permette di entrare in contatto con il privato dei De Claricini Dornpacher. Gli oggetti di uso quotidiano e quelli di uso personale, gli arredi, le fotografie, i soprammobili, i dipinti, i decori parlano di loro: emerge, in particolare, l’attenzione per le arti tessili, per la pittura, per Dante.
Una stanza dopo l’altra, dal piano terra al piano nobile, uniti dalla bella scala in pietra severa: par di fare un salto indietro nel tempo e il tempo, dal canto suo, par davvero fermarsi e permetterci di godere a fondo la nostra momentanea condizione di ospiti straordinari della villa. L’occhio par non avere posa, invece, correndo come fa tra i particolari di questa antica casa – museo, ingordo e desideroso di trattenere il più a lungo possibile in memoria le immagini percepite.
Questa villa è un posto una vora speciâl, un luogo privilegiato perché sopravvissuto a se stesso e all’estinzione del ramo principale della famiglia che lo abitò per secoli.
Lo è ancor di più perché si apre a noi, ci accoglie e ci ospita, permettendoci di ammirarlo e conoscerlo da vicino.
Fa di più, in verità, prestandosi alle mille esigenze dell’uomo contemporaneo.
Qui, infatti, si mangia, si beve, si suona, si canta e si prega: vi riferiremo in proposito nella puntata numero settantotto.