Quarant’anni. Significa che galoppo (tre anni dalla linea) verso i gloriosi cinquanta. Eppure come detto, ridetto, straletto l’orcolat ci ha cambiati. Tutti, per sempre.
Ognuno fra noi, noi che purtroppo c’eravamo, ha il suo nitido, amaro ricordo. Quei sessanta secondi a seiequattro della scala Richter, credo undici di quella Mercalli, già furono durissimi; fu ben peggio girare la nostra regione e vedere tutto giù. Tutto giù. Fu ben peggio sapere mio papà, falegname, cooptato dal comune di Gemona a fabbricare le case meno grate, quelle di legno di pino per l’ultimo viaggio. Giorni, settimane senza vederlo. E lui, già taciturno, parole zero. E dolore mille.
Per anni, qualcuno anche oggi, in giro per l’Italia ci han chiamati terremotati, tanto per offendere. Ho scritto, in quattro anni e su due testate più un blog, quasi settecento articoli senza usare mai una parolaccia, ma qui chiamare i nostri detrattori poveri coglioni ci sta, e alla grande. Perdonatemi, non lo rifarò.
Ebbene: chi mi chiama(va?) terremotato in giro per gli stadi, non sa di farmi un complimento. Il terremoto, l’orco cattivo, è una specie di frattura dentro di me. Chi ha sofferto quegli istanti, ovviamente, non sarà più lo stesso; anche perché quella scossa rende ognuno di noi irraggiungibile da quello che eravamo prima: nel bene e nel male, metà per parte. Rive gauche et rive droite, alfa ed omega, la forza di ricominciare numerando le pietre crollate nel nostro cuore, una ad una, per ricostruire la nostra ecclesia esattamente com’era, ma non sarà mai più uguale a sé stessa, con quei numeri che ci ricordano il crollo.
Il buio. Le urla, l’eternità. La consapevolezza che ci sono miliardi di pietre da spostare, e uomini e donne da consolare, perché l’ecclesia dentro di noi è solo parte di quella attorno a noi. Ancor oggi incontro gente, attorno al mondo, che mi dice di quando vennero “ad aiutare” e da quel momento non hanno mai smesso di sentirsi parte della nostra nordestina ecclesia: friulano in aeterno.
Il buio. Le urla, l’eternità. A riveder le immagini ancor oggi vien voglia di piangere, ché queste cose sequestrano neuroni e non li lasciano andare. Ma giro, oggi, la mia regione e la vedo perfettamente a dima, magari manca qualche posto di lavoro ma nulla, se non poche vestigia lasciate a memoria, ricorda quella notte: bastiamo noi, che siamo stati più fortunati di quei novecentonovanta. Eppure quelli di cui sopra, o altri di pari sensibilità, mi dicono “eh beh, fortunati voi al nordest”. Lo rifaccio: vaffanculo. Guardatevi Paolo Frajese, che intervista i superstiti, fra cui uno che sta portando via carriole di macerie e gli sussurra “io e mio figlio siamo scappati da un buco sul soffitto, mia moglie è ancora la sotto da qualche parte”. O Gianni Minà che chiede ad una ragazza “sei dura, non piangi, perché?” e lei lo guarda con falsa indifferenza rispondendo “ la mia casa è pericolante, tante sono crollate. Bisogna ricostruire, dobbiamo tirar su le case”. Lacrime? A secchi, a barriques, a tonneaux. Ma lacrime masticate lavorando, che noi siamo fatti così: libars di scugnì là. Libars di scugnì lavorà.
E questa paura rabbia voglia-di-fare vorrei le sentissero i bianchineri, impegnati a salvare i nostri (non loro) colori, il bianconero dei Savorgnan così sacro da ricordarci accostamento all’omòcromo vessillo templare. Vorrei scacciassero le loro streghe, sapran loro quali siano, ad onorare i venti pullman e le innumeri auto che li seguiranno a Bergamo. Molti fra quei più-di-mille c’erano, nel settantasei; molti altri no ma sicuramente i loro genitori vissero dramma e ricostruzione. Se mi faranno fare brutta figura, io che mi sono esposto profetizzando la prestazione, non rientrino nemmeno. Àuspichino il trasferimento ad altra squadra mediante l’apposito procuratore.
Chiudo. Fin troppe parole, anche stasera. Mi piace solo ricordare un altro esempio di statura morale: le leggi fascistissime abolivano gli ordini scout, negli anni venti, quando tutti i gruppi giovanili furono inquadrati nelle Opere Balilla. Ebbene, da lì in poi gli esploratori operarono una resistenza silente, continuando la loro opera benefica a rischio della propria vita. Specie dopo l’otto settembre, quando grazie a Don Barbareschi ed altri religiosi organizzatori si inquadrarono nelle Aquile Randagie, gruppi indipendenti di resistenza disarmata che accompagnarono quasi seimila persone fuori dai confini della nazione salvando loro la vita.
Lo so: gli eroi delle macerie, quelli della resistenza senz’armi… Il “nostro” è solo calcio. Ma anche per giocare al pallone, secondo me, ci vogliono doti morali. E spesso i nostri ciabattanti le posseggono ma non se ne rendono conto. Ecco, magari guardino un “fuori orario” dedicato al sei maggio 1976, o un “mille papaveri rossi” sugli scout di Don Barbareschi, e le paragonino al comportamento spesso tenuto negli ultimi cento incontri dalle formazioni biancanera. Non chiedo eroismo, ma rispetto, quello, sì. Anche dalla società, sia ben chiaro.