Sono un ragazzo fortunato. Perché m’hanno regalato Zico. Fortunato, come tutta la mia generazione: ne abbiamo visti, noi, di numeri dieci, quelli che negli anni ottanta godevano di rispetto e spazio ma al contempo subìvano una memorabile rata di mazzate.
Colgo fior da fiore, ripescando indietro nei miei quarantaquattro anni di vita calcistica: l’ultimo O’ Rey Pelé; Robertino Rivelino, inventore dell’elàstico; Téo Cubillas, profeta peruano con la colpa di non esser nato all’ombra del Corcovado.
Vissi da adolescente gli ultimi anni “autarchici” di squadre al cento per cento italiane: poi le frontiere si aprirono, a consentire prima ad uno, poi a due “foresti” di far parte delle rose della serie A. Falcao e Toninho Cerezo per la Roma; Rummenigge per l’Inter; Platini e Boniek alla Juve, mentre il Milan con Hateley, Wilkins e il (per certi versi) mitico Luther Blissett, la pantera nera giamaicana di Watford, accendeva meno la fantasia. La Samp di Brady e Francis, l’Hellas di Preben Larsen Elkjӕr e del potentissimo Briegel. Il Napoli di Dirceu, Bertoni, poi Careca e la “mano divina” di Diego.
E l’Udinese? Neumann, Orlando, Edino Nazareth Filho e Surjak. Fino al 1983.
Erano i primi di giugno di quell’anno: l’anno della mia licenza media, di calci ad un pallone e poca televisione; gli anni del Super Tele che si bucava, ma il ferro da calza arroventato e una valvola modificata ci facevano risparmiare le duemila lire che una nuova sfera sarebbe costata; anni di Udinese salita in massima serie, di primi rossori con le ragazze e di un compagno di classe dalla bici dipinta di rosso e di nero. Milanista? No, tifoso del “Fla” e del suo “Rei”, dal fisico non straordinario ma dall’inconfondibile esultanza a braccia levate, salvo terminarla sotto la curva con un terzo tempo e slanciando il destro in avanti.
E quel ragazzo mi disse “L’Udinese sta prendendo Zico”. Io dubitavo: in fondo già Edinho e Ivica erano una supercoppia per le nostre latitudini. Ferlaino si era svenato per Maradona, ma Napoli è una grande città e questo aveva senso: cosa avrebbe convinto un imperatore del calcio, che in maglia “rubronegra” aveva messo a segno settecento reti e sessanta in verdeoro; che aveva appena conquistato la Coppa Intercontinentale, e ancora oggi custodisco il ritaglio della Gazzetta dello Sport che riportava quella notizia? Perché sarebbe dovuto venirsene proprio in Friuli?
Lapidario il mio papà. Posando delle piastrelle nella nuova cucina, in un (al solito, da vero friulano) indaffarato dopolavoro, disse in marilenghe “nuje compralu… A l’è chel di mantégnilu”. Poco prima annunciarono Giordano, attaccante mai giunto: mi misi il cuore in pace.
Ed un mattino, la bomba: “L’Udinese ufficializza Zico”. Io non ebbi parole; né lacrime di gioia, né battiti del cuore per almeno dieci secondi, per poi sentirlo rimbombare nel petto come un’eruzione vulcanica. Zico. Zico. ZICO! Dal rossonero carioca al bianchenero originale, assieme a Franco Causio il più “brasileiro” degli italiani.
Sappiamo quel che ne seguì, con la federazione di Sordillo che osteggiò il tesseramento di Arthur e Cerezo alla Roma; così come di chi, mio parente, si presentò con migliaia di noi in piazza Libertà, brandendo il minaccioso e secessionista cartello “Zico o Austria” che ho rivisto l’anno passato grazie all’amico Massimo Falato ed alla sua mirabile cormonese manifestazione, “Gol a grappoli”. Ricordo le parole del primo cittadino Candolini, e quelle dure e decise di Lamberto Mazza e Franco Dal Cin, grande e lungimirante manager, regista dell’intera operazione (pensò allo sfruttamento dei diritti d’immagine con decenni d’anticipo sul resto del mondo… Chapeau).
Ci pensò Giulio Andreotti: la faccenda fu appianata e Zico ufficializzato in maglia bianconera. E tutti sciamarono a Ronchi dei Legionari, sulla terrazza troppo piccola per così tanti di noi; come fosse ora ricordo l’atterraggio, e il rullaggio, una bandiera bianconera che spuntava dal finestrino della cabina di pilotaggio.
Invidio il fratello Lorenzo Petiziol, ritratto in alcune foto sulla pista accanto al Galinho; io lo vidi da lontano, con ancora dentro di me la friulanissima, pessimistica idea che il sogno era tale e non realtà. Invece tutto era appena iniziato…
La sfilata a Udine su un’auto d’epoca; le prime parole, da cui traspariva l’amore già sbocciato fra una città, una regione, un popolo ed un giocatore divenuto dal minuto zero un simbolo. Sorrideva, era emozionato e timidamente contento; aveva una sciarpa biancanera attorno al collo, era uno di noi.
Le prime amichevoli, la soffertissima rinuncia ad un altro signore e campione come Giovanni Surjak; le prime reti, le prime magìe, le prime intese col Barone Causio, e Massimo Mauro, Zé Paolo Miano, gente che parlava la stessa, sudamericana lingua calcistica.
Il ritiro a Tarvisio, un’estate torrida; noi ragazzini aggrappati alle reti di recinzione del campo e “armaròn” Cattaneo, burbero e simpatico, che ci apostrofava “canaglie, occhio alle insolazioni” prima di zampettare via, una mole imponente e due mostacchi da antologia.
Sfilarono tutti, a cominciare da Causio e Massimo Mauro che soffriva per le scarpette nuove un po’ troppo “dure”. Ed ecco lui, palesarsi assieme al mitico massaggiatore Casarsa: maglietta bianca, calzoncini blu, palla in mano e sorriso d’ordinanza. Aveva già percorso qualche chilometro da solo, cercò di accomodarsi su una panchina ma il sole, arroventandola, l’aveva resa inutilizzabile così si rivolse a noi e ci indicò l’ingresso… A noi? Davvero? Noi? Disse sì, e calciò verso di noi la palla, invitandoci a rendergliela. No, fatemi capire: Zico mi passa la palla? Il mio calcio fu flebile, lui alzò la testa al cielo ridendo e mi disse “màis forci… Più forci!”. Gliela calciai, un ultimo sorriso e via a provare le punizioni, cento delle quali all’incrocio su cento tentativi.
E fu campionato: si faceva a gara per accaparrarsi abbonamenti (mi pare ventiseimila abbondanti) e i preziosi tagliandi, a Udine ed in tutta Italia, per assistere alle prodezze di Arturo. che era, ed è, il Galinho nostro. Incredibile pensare che, con Zico, l’Udinese arrivò nona nel 1984 e dodicesima l’anno seguente: segno evidente che il risultato conta, ma non sempre. Edecine di migliaia di persone al Grezar ed al Friuli, derby di Coppa Italia, deciso da due sue reti in venti minuti del match di ritorno.
Prima gara: si va a Genova e il nostro seguito è imponente. Rossoblu duri e fallosi, ci vogliono quasi quaranta minuti affinché Massimo Mauro la sblocchi, deviando alle spalle di Martina un cross di Edinho. Minuto 42’: palla a Zico in area, doppia finta su Testoni che ancora oggi lo sta cercando e raddoppio. Un’azione da cineteca, una gara finita perché da lì in poi sarà esibizione.
Due reti di Virdis nella ripresa, ma all’89’ punizione dal limite per i bianchineri, sul vertice sinistro dell’area. Tre passi, calcio perfetto che coglie l’incrocio alla destra del portiere di casa. E lo stadio, tutto lo stadio, si alza in piedi ed applaude il Galinho. Scena che si sarebbe ripetuta ovunque, perché Zico è stato amato da ogni tifoseria.
E la domenica successiva? Si debutta al Friuli contro il Catania di Sorrentino, Ranieri, Cantarutti, Pedrinho e Luvanor. Gli ospiti vanno in vantaggio, l’Udinese è nervosa ma ecco un calcio di punizione. Lo descrivo con le parole della prima firma della Gazzetta dello Sport, che disse più o meno “fino a quel momento mi chiesi cosa ci facessi, a Udine; questo numero dieci che conta gli spettatori non mi solleticava la fantasia. Fino a quando mise la palla sul punto di battuta, fece quattro passi… E ammirando quella traiettoria capii. Capii cosa ci facevo lì”.
Otto gare, le prime: otto reti, tutte bellissime. Come la punizione di Avellino, battuta “di seconda” dal vertice destro dell’area, misto di potenze e precisione che fulminò il portiere sul proprio palo, credo fosse Paradisi.
Il resto lo conosciamo: è triste pensare a quanto poteva essere e non è stato; tristissimo che qualche leguleio, per puro amore delle prime pagine, lo abbia dipinto come un gretto mostro evasore salvo vederlo assolto per non aver commesso il fatto; ma quanto Arthur ci ha dato resta per sempre. Rimane. Per sempre. Così come quello che noi, che il nostro popolo ha dato a lui, che ancora oggi si commuove di fronte a quella foto con il cappello da alpino in testa, due simboli del mio buon Friuli nella stessa immagine.
Molti giovani mi parlano del calcio moderno, mi ascoltano parlare degli anni ottanta quasi fossimo “il vecchio e il bambino” di Francesco Guccini: ma quel calcio era spettacolo allo stato puro.
E Zico? Nessun campione riceve, a distanza di trentadue anni dall’addio alla propria maglia (dopo lo sfogo contro lo scarsissimo arbitro Pirandola di Lecce, reo di non avere visto un clamoroso gol di mano di Maradona sotto la curva Nord), tanto affetto come il Galinho: avendo vinto, tutto sommato, nulla con noi.
Perché? Chissene. La vittoria non è tutto, se per una stagione (la seconda fu tormentata da infortuni a raffica) abbiamo goduto di diciannove reti in ventuno gare, come quella ancora leggendaria contro la Roma: Brini per Galparoli, da questi per Causio, lancio a Zico che fulmina Tancredi sotto la Nord. Brividi ancora oggi, dopo trentaquattro anni.
E domenica 19 di febbraio, dopo anni di lontananza, eccolo: Arturo Antunes Coimbra, per tutti Zico. Per noi il “Galinho”, il galletto che illuminò due stagioni bianchenere tanti e tanti anni fa.
E rivederlo domenica, in campo… Sul suo campo, sarà un’emozione inevitabile. Per noi che c’eravamo, per chi oggi lo rivede su Youtube. Io non ricaccerò in gola le lacrime: non quelle di rabbia che mi salirono a Cremona, giugno 1985, quando sapevamo (lui non c’era) che non l’avremmo visto più giocare con noi; sara un pianto di commozione, di gratitudine, di gioia. Zico torna a casa, O’ Rei chega a casa. Dobbiamo riempire lo stadio Friuli, abracciarci tutti forte e abbracciare quel ragazzo carioca, che per una stagione ci ha resi ancor più fieri dei colori che ci fanno battere il cuore.
Obrigado, meu irmão. Obrigado uma vez até agora.