Non esistono, nel mondo dello sport, troppe cose più suggestive della maglietta col “dieci” sulle spalle.
Sogni di bambino che prende a calci un pallone sperando di non finire come nella canzone del Liga,”che natura non ti ha dato né lo spunto della punta, né del dieci… che peccato”. Anzi, l’infante chiude gli occhi e sogna di scartarli tutti, compreso il portiere per deporre la sfera colorata in fondo al sacco. Ovazione dei cinquantamila presenti, esultanza, immortalità sportiva assicurata.
Ad Udine? Geni. Onesti pedatòri. Aspettative deluse. Buoni giocatori, di talento più o meno cristallino, alcuni dei quali ricordiamo bene.
Ad iniziare dal bravo Dino d’Alessi, mezzala d’altri tempi, che militò in bianco e nero lasciando la squadra proprio in concomitanza con l’avvento di Massimo Giacomini.
Un mito assoluto come Ezio Vendrame, cjasarsèis classe quarantasette, poeta maledetto della beat generation italiana. Come lui da noi nessun altro, nel mondo lo paragonarono (non a torto) a George Best. Da Udine fu spedito subito dopo la trafila delle giovanili, a vent’anni, per girare l’Italia senza i successi (sul campo) che il suo talento avrebbe meritato; specialmente all’ombra del Vesuvio ove un mister, di cui abbiamo parlato e per il quale non nutro stima alcuna, lo affossò. Emblematica l’ultima gara, squalificato per aver gettato fuori dal recinto di gioco di Casarsa, dove giocava con lo Juniors, i cartellini di un arbitro sventurato.
In tempi più recenti, Angelo Orazi, scuola Roma e piedi buoni; Claudio Bencina, triestino ordinato ed educato; ovviamente Gigi l’Aquileiense, oggi conducatore delle cose bianchenere; assieme a lui, nella scalata alla massima serie del 1979, il carnico “occhi di ghiaccio” Sergio Vriz.
E Beppe Dossena, correttissimo ex-granata che a Udine si rilanciò; Beppe Catalano, che arrivò dal Messina nel 1989 ma mai ben ambientatosi sotto il Ciscjel; e Criscimanni, Fiore, Pizzi, Martino Jørgensen.
Gran delusione Ricardo Gallego Redondo, prestigioso ex-Reàl che arrivò a svernare nel 1989, comportandosi da ragioniere e non mai da geniale trascinatore.
L’ondivaga ed incerta vita del diez, con pregi e difetti, è incarnata da figure come Herbert Neumann, il primo straniero dell’epoca udinese moderna: buona visione, che si presentò da capitano uscente del Colonia e in compagnia di una memorabile moglie. In campo non cambiò le cose, ci salvammo ma l’anno successivo finì a Bologna per far spazio al compianto Orlando Pereira, libero del Vasco dall’indefinita età.
E Daniele Pasa? Col Galinho inanellò prestazioni sontuose. Non ce la fece, però, a svoltare e sparì purtroppo presto in serie meno prestigiose.
Non mi dimentico Ivica Surjak: grandissimo capitano dei plavi yugoslavi in una nazionale slavicamente perfetta quanto atavicamente indisciplinata. Fu ceduto solo per far posto al Re. Abilità al tiro (contro la traversa… ribassata), visione stereoscopica e velocità di pensiero in un campionato come quello di oggi farebbe vieppiù la differenza.
E Francesco dell’Anno, il secondo più grande numero dieci italiano della storia recente dell’Udinese. Qui si scoprì il talentuoso Genio delle giovanili laziali. Fu ceduto all’Inter per una petroliera di miliardi di lire, ma la schiena a pezzi ne rese dolorosa la continuazione di carriera.
Per ultimo, non l’ultimo, il signor Di Natale Antonio, classe ’77, professione campione. L’amore per le giocate spettacolari ne fa un degno portatore sanissimo del dieci sulla maglia. Ha dedicato una vita intera alla cammisa biacca e carbone, l’anno scorso contro il Carpi tante lacrime, di tutti.
Le lacrime che verseremo, domenica prossima, sono di gioia e nostalgia. Perché arriva “IL” numero dieci, per me come lui nessuno mai.
Zico, al secolo Arthur Antunes Coimbra, è il giocatore che per me incarna l’essenza della prima doppia cifra nella vecchia codifica “uno-undici”: incanta ed è essenziale; elargisce fantasia ma sa essere cinico; passa la palla da Dio, sapendo dove piazzarla secondi prima che il suo compagno effettui il movimento, ma realizza da bomber consumato (diciannove reti in ventuno presenze nella stagione d’esordio, secondo solo a Michel Platini).
Chi come noi l’ha visto giocare non lo può dimenticare; a chi lo conosce solo dalle immagini di Youtube, chiedo solo di immaginare l’emozione di vederlo posizionare la palla, con la cura maniacale che lo contraddistingueva, al limite dell’area: e poi tre, quattro passi ed il portiere che al massimo la guardava entrare. Tacconi come Paradisi, Zenga come Sorrentino.
Un numero dieci, IL numero dieci che sino ad allora avevamo visto in televisione, schiantare la Nuova Zelanda o l’Argentina, vincere la Coppa Intercontinentale, era nostro. È nostro.
La solitudine dei numeri dieci, isola lontana da tutti, spalle larghe a regger la squadra. Sperando che guardando Zico salutarci, anche Rodrigo DePaul capisca quanto pesi, storicamente, il numero che ha scelto per la sua “camiseta”.