È così: prima dell’avvento dei novantanove numeri di maglia, nella “Cartagine” calcistica il “sette” veniva dato all’ala destra: a quel misto di genio, sregolatezza, velocità e settepolmoni si chiedeva di venirsi a prendere palla, puntare il fondocampo e, con i propri cross, rifornire il “nove” in mezzo all’area. Maglie fuori dal calzoncino, calzettoni abbassati, criniere improponibili e dribbling pazzeschi, in nome del dogma più bello del calcio: divertirsi e far divertire.
Mi piacerebbe iniziare, perdonatemelo, con qualche nome più “moderno” e tutto sommato spesso non immortale. Quest’anno il sette ce l’ha Ryder Matos, un “braf frut” ma fra i brasiliani che hanno indossato questa casacca non certo il più talentuoso. Prima di lui Pablo Estifer Armero, in potenza un discreto giocatore, però totalmente privo di raziocinio. Di lui a Udine ci ricordiamo più gli eccessi etilici, i tentativi di corruzione di agente di polizia, le vistose compagnie femminili e un’immagine colla tenuta arancione del carcere di Dade County (dopo aver usato violenza alla moglie) che le reti (bellissima quella alla Fiorentina nel 2010) e le discese sulla fascia.
E prima ancora Emmanuel Badu: uno dei giocatori più legati ai nostri colori (se n’è appena andato in Turchia, a guadagnare molto di più) ma ancora una volta non certo il “talento al potere”.
Altri giocatori col “sette” ma tutto sommato non memorabili furono Lucas Castroman (arrivò dopo un tira e molla con la Lazio ma non lasciò segno); Damiano Zenoni, centrocampista di quantità titolare nella formazione della prima Champions League friulana; nel passato remoto Giordano Cinquetti, riminese ex Pescara. Persino il leggendario Ametrano indossò la sette, nell’anno del ritorno bianconero in massima serie sotto la guida di Zaccheroni.
Talento non espresso Vitor Barreto, frenato da infortuni e qualche timidezza di troppo ma brasiliano fino in fondo. Talento espresso ma spesso frainteso dal pubblico Luca Mattei, livornese incarnazione stessa dell’estrosità insita in questa maglia. Quattro stagioni, tanti chilometri, mille cross e qualche rete, alcune bellissime come il tiro a giro contro il Napoli. E Warley Dos Santos? Un brasiliano niente male (oggi, trentanovenne, gioca nel Botafogo) ricordato però in particolare per aver causato lo “scandalo passaporti”, quando in trasferta in Polonia il suo documento visibilmente falso fu scoperto da uno zelante funzionario locale. Gli inquirenti che indagarono in Italia li chiamarono, per la grossolana cura della contraffazione, “passaporti di Topolino”. Solo il coinvolgimento di top club come Roma ed Inter permise, all’italiana, di chiuderla con qualche multa ed un buffetto anziché spedire le società “responsabili” in serie B.
Adesso però vorrei parlare di cinque giocatori che questo numero lo hanno valorizzato e meritato sino in fondo.
Il primo è Simone Pepe: il laziale di Albano disputò tre super-campionati con la maglia bianconera, meritandosi quella azzurra della Nazionale e gli stessi nostri colori indossati a Torino. Serio, veloce, capace; tecnico e concentrato, Simone è stato uno delle ultime ali degne di questo nome viste in bianconero.
E Alexis Sànchez? Non un’ala ma un piccolo campione. Lasciò la maglia numero undici per prendersi il sette, ma di lui ci ricordiamo ben altro che questo: reti, magìe, slalom; una crescita sbalorditiva, una coppia definitiva con Totò Di Natale; una stagione, la sua ultima con l’Udinese, nella quale ci fece quasi commuovere per la bellezza della sua maniera di giocare, per un tocco di palla felpato, per dei fondamentali ferrei lungamente allenati e riprovati. La rete realizzata a Cagliari, partendo dalla linea di centrocampo, è un insieme di poesia, velocità, tecnica, concentrazione, freddezza: in sostanza, il calcio. Dopo Udine, Barcellona ed Arsenal per il colombiano di Tocopilla. Per noi, invece, nel dopo-Totò tante delusioni.
Marcio Dos Santos Amoroso giunse a Udine in punta di piedi, con un infortunio al ginocchio che lo aveva confinato in Giappone prima di un ritorno in patria senza acuti. Sembra che a Piazzolla e soci l’abbia suggerito Zico in persona, dopo averlo visto al Flamengo. Ci mise un po di settimane, di mesi nei quali lo stesso Zaccheroni dubitava delle qualità del nativo di Brasilia: ma dopo una doppietta alla Viola Marcio non si fermò più. Assieme a Bierhoff e Poggi compose uno dei tridenti d’attacco più forti della serie A recente, di certo una di quelle cose che racconteremo ai posteri, noi che c’eravamo. Perla di bellezza assoluta la rete al Parma, dopo aver stoppato palla, superato Sartor con un sombrero e fulminato Buffon (non uno qualsiasi) sul suo palo. Tre stagioni all’Udinese ma sembrarono venti; poi al Parma per una cifra record, di lì a riportare il Borussia Dortmund allo scudetto. L’anno passato, a quarantadue anni suonati, si tesserò con iol Boca Raton in una lega minore statunitense. La passione non ha età.
1981: l’Udinese cerca un centravanti, lo individua in “Dustin” Antonelli, attaccante del Milan. Tutto sembra fattibile, ma i rossoneri vogliono acquisire Franco Causio, trentaduenne in uscita dalla Juventus che lo considera bollito, senza trattare direttamente con i torinesi. Dal Cin prende quindi Causio, ma alla fine Antonelli rifiuta Udine e Causio rimane in bianconero.
Risultato? Il Milan di Radice retrocede, questa volta sul campo. Franco Causio si dimostrerà ancora uno dei migliori giocatori del campionato, tanto che Enzo Bearzot se lo porta nella vittoriosa campagna mondiale di Spagna ’82 facendogli anche giocare uno scorcio di finale. A Udine rimarrà fino al 1984 quando si trasferirà all’Inter.
Causio è stata una delle ali destre più forti al mondo, di certo la migliore in Italia assieme a Bruno Conti. Telé Santana disse che se avesse potuto fargli prendereil passaporto brasiliano lo avrebbe schierato assieme ai vari Tita, Zico, Cerezo, Leàndro, Socrates e compagnia cantante. Estroso, decisivo, Franco è stato un esempio per tanti ragazzi che, come me, provavano ad imitarne la classica movenza quando scartava l’avversario diretto sulla fascia. Ad Udine è rimasto a vivere.
Lascio per ultimo non certo il più forte, ma quello cui sono affezionato. Carlo De Bernardi, bustocco classe ’52, protagonista dell’armata invincibile di Giacomini che dominò due campionati di fila. Estroso, riccioluto, mostrava una finta goffaggine quando invece risultava irrefrenabile quando si lanciava verso l’area avversaria. Pagò la desuetudine alla massima serie, e ad ottobre 1980 venne ceduto al Cesena da cui Sanson e Dal Cin prelevarono Arrigoni. Mi ricordo distintamente una rete a Palermo, una a Bari che consentì la rimonta sui galletti biancorossi di Giulio Corsini. Chiuse l’avventura friulana con una settantina di gare e 24 reti realizzate, decisamente un bottino importante.
Una grave malattia ce lo porta via troppo presto, a soli 56 anni; di lui mi rimangono le discese ardite, le calze arrotolate, il ricciolo ribelle. Verso di lui, il DeBe, nutro un affetto raro.
Il sette: pazzia, follia, tecnica e polmoni. Cose di “una volta”: cose per noi nostalgici.