Anche quest’anno, tra un DPCM e l’altro, siamo arrivati alla fine di maggio, che è il mio mese di nascita, il mese delle rose, ma soprattutto il mese delle mamme; in Italia la Festa della Mamma si celebra la seconda domenica di maggio, che spesso coincide con il giorno del mio compleanno. Ricordo che una trentina di anni fa mi regalarono una torta con la scritta “Auguri mamma”, anziché “Auguri Lisa”, perché il pasticcere non aveva capito che si trattava di festeggiare un genetliaco; allora non ci feci molto caso, la torta era buona e io ero una bambina golosa, quindi ci risi sopra e la mangiai con gusto. Probabilmente, se quest’anno avessi ricevuto un regalo simile la mia reazione sarebbe stata diversa, la mia risata sarebbe stata più amara; oggi infatti sono consapevole che essere mamma non è facile e immagino lo sia ancora meno quando “maternità” fa rima con “disabilità”, in quel caso sì che gli auguri servono davvero!
Tuttavia so per esperienza che “difficile” non è sinonimo di “impossibile”: per dimostrarlo alle lettrici e ai lettori di “NordestNews”, ma in primo luogo a me stessa, ho chiesto aiuto a Samanta Crespi, una mia coetanea nata e cresciuta in provincia di Varese, che come me convive da sempre con la tetraparesi spastica, esito di una paralisi cerebrale infantile (PCI) conseguente alla nascita pretermine.
La Festa della Mamma è la sua festa da quattro anni, dal giorno in cui ha potuto stringere tra le braccia per la prima volta la sua bimba, frutto di un amore sbocciato tra i banchi di scuola e coltivato per un ventennio, capace di guardare oltre la diversità, superando tutte le paure e i pregiudizi che spesso questa porta con sé. Quando nel 2016 scopre di essere incinta, Samanta è felice e spaventata allo stesso tempo, i dubbi che la assalgono sono quelli comuni a tutte le donne che si accingono a diventare mamme, ma anche quelli strettamente legati alla disabilità motoria, ad esempio: potrò partorire naturalmente? Riuscirò a cambiare il pannolino alla mia creatura nonostante i miei problemi di equilibrio? Come farò a seguire mio figlio o mia figlia quando inizierà a camminare e a correre per casa senza sosta? Per cercare risposte a questi interrogativi e per sentirsi meno sola in questa nuova avventura, inizia una frenetica ricerca di testimonianze e informazioni, ma per molto tempo la sua rimane una voce che grida nel deserto.
Intanto la gravidanza procede senza intoppi, in maniera assolutamente fisiologica; ciò che purtroppo non è fisiologico, né tantomeno accettabile in un Paese civilizzato del ventunesimo secolo, è il comportamento del personale medico che prende in cura la gestante, che insistendo nel volersi attenere scrupolosamente al protocollo (secondo il quale le donne affette da paralisi cerebrale infantile devono ricorrere a un parto cesareo programmato indipendentemente dalla loro volontà e dalle loro condizioni generali di salute), nega a Samanta il diritto ad autodeterminarsi, ovvero a decidere in autonomia la strada da seguire, scegliendo quello che ritiene essere meglio per lei e per la bambina che porta in grembo. Perché questo diritto le venga riconosciuto, la futura mamma è costretta a rivolgersi all’ospedale “Valduce” di Como, una struttura con un reparto di ginecologia e ostetricia molto all’avanguardia, un’equipe formata da professionisti che credono in lei e invece di farla sentire “sbagliata” la accompagnano con competenza e dedizione fino alla nascita della bimba, rispettando e assecondando il suo desiderio di partorire naturalmente.
Dopo i primi giorni in ospedale, puerpera e neonata giungono finalmente a casa, scortate da un marito e padre amorevole, che per almeno due anni (potendo beneficiare del congedo straordinario garantito ai familiari di persone disabili ai sensi della legge 104/1992) non le lascia mai sole e interviene prontamente in tutte le situazioni nelle quali i limiti fisici della neomamma si fanno sentire. Nel frattempo Samanta rimane sempre attiva sui social e non perde la speranza di incontrare altre donne e mamme con PCI con le quali scambiare idee, esperienze e consigli; è il 2018 quando per caso conosce Antonella su Facebook e insieme decidono di creare un gruppo di supporto e mutuo aiuto per tutte coloro che si trovano a vivere nella loro stessa condizione: così nasce su Whatsapp un primo gruppo privato, che ben presto si trasforma nella pagina Facebook Disabilmente Mamme, uno spazio nel quale parlare di disabilità, autonomia e maternità, nella consapevolezza che l’indipendenza (requisito fondamentale per diventare genitore) non è scontata, allo stesso modo in cui non è scontato per una madre disabile potersi confrontare con una realtà simile alla propria, con qualcuno che sia in grado di comprendere il suo vissuto e sappia dare consigli adeguati alla situazione.
Oltre ad apportare il suo contributo alla pagina Facebook di cui sopra, Samanta collabora anche alla redazione del blog Disabili Abili, un “contenitore” di articoli riguardanti varie tematiche, perlopiù inerenti al mondo della disabilità. Questo mondo non conforme e proteiforme è forse quello che la trentottenne varesina conosce meglio, dato che sin dall’età di cinque anni sa di appartenervi. Già ai tempi della scuola materna infatti si rende conto di essere diversa dagli altri, a tre anni subisce il primo intervento chirurgico e da allora deve fare molta fisioterapia, una faticosa “tortura” alla quale ovviamente i suoi coetanei non si sottopongono; è chiaro dunque che in lei c’è qualcosa di diverso, che il suo corpo non è come quello di tutti gli altri.
La diversità si palesa ancora di più nel periodo dell’adolescenza, quando le difficoltà e gli imbarazzi per alcuni cambiamenti fisiologici diventano più marcati; durante questa fase critica della sua vita, Samanta non riceve grande sostegno dalla sua famiglia, i suoi genitori si sono separati da poco (da quando lei aveva dodici anni) e probabilmente non riescono a darle tutto il supporto psicologico di cui avrebbe bisogno, anche se a modo loro cercano di essere presenti. Neppure dal punto di vista delle relazioni affettive e amicali le cose vanno tanto meglio, per fortuna la ragazza non vive una situazione di isolamento, tuttavia gli amici veri sono pochi e ancora oggi si contano sulle dita di una mano.
Nonostante questo, Samanta riesce comunque a terminare gli studi con successo, prima diplomandosi al liceo artistico e poi laureandosi in Filosofia; come già scritto più sopra, proprio tra i banchi di scuola, all’ultimo anno di liceo, trova l’amore. Con quello che ormai da un ventennio è il suo compagno e da quasi un lustro è suo marito, instaura un legame solido e duraturo, basato sul reciproco sostegno fisico ed emotivo, esattamente come dovrebbe essere per tutte le coppie che si rispettino; anche il rapporto con sua figlia è piuttosto “normale”, al momento la disabilità non sembra condizionarlo molto, fatta eccezione per qualche domanda specifica da parte della piccola, che adesso inizia a notare le particolarità della sua mamma e ne è giustamente incuriosita.
Oggi Samanta Crespi è una donna, una moglie e una madre felice, che divide il suo tempo tra la gestione della casa, la cura della famiglia e la scrittura di articoli, racconti e recensioni di libri, pubblicate sul blog Upside Down Magazine. Manca però la classica ciliegina sulla torta, che in realtà sarebbe una ciliegina di grande valore: attualmente Samanta non ha un impiego vero e proprio, presta solo collaborazioni occasionali, dunque non può contare su un’entrata fissa mensile; è facile intuire come questo generi in lei un senso di insicurezza e incertezza che non le permette di guardare al futuro con serenità, né tantomeno di fare progetti a lungo termine.
Augurandole con tutto il cuore di poter iniziare presto un percorso professionale soddisfacente e magari riuscire anche ad allargare la famiglia (se lo desidera davvero), speriamo che la sua testimonianza rappresenti un incoraggiamento per le donne disabili che vorrebbero diventare madri, ma spesso rinunciano perché sentono che il loro desiderio viene percepito dalla società come strano e assurdo, perché hanno paura di non essere all’altezza del ruolo e tremano al pensiero di dover affrontare da sole questa grande sfida; d’altro canto però, speriamo che il racconto della sua esperienza personale contribuisca anche a sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni affinché in un prossimo futuro venga garantito maggior supporto alle madri durante la gravidanza, al momento del parto e in tutte le fasi di crescita del bambino, tanto più se si tratta di madri diversamente abili. Più in generale, esattamente come Samanta, vorremmo che il pietismo e l’assistenzialismo che ancora aleggiano intorno alla disabilità, potessero finalmente cedere il posto al diritto sacrosanto di ogni persona ad autodeterminarsi e realizzarsi secondo le proprie capacità e inclinazioni, a prescindere dalle sue condizioni psicofisiche.