È notizia di oggi, ufficiale, che lo stadio Friuli non esisterà più a far data dalla gara contro la Juventina di Nizza Millefonti. Orgogliosamente ne danno lieto annunzio il signor Giampaolo Pozzo e, mi figuro, lo sponsor Antonello Dacia. E nel comunicato la si chiama “Dacia Arena”, poche storie.
Anticipo i discorsi di coloro i quali sono d’accordo: sì, grazie a Pozzo per vent’anni di serie A. Sì, la squadra il campo il mondo sono suoi e li chiama come gli pare. Sì, nei nostri cuori lo stadio sarà sempre Friuli, chissene come lo brandizzano (visto come parlo evoluto? Canciani duepuntozero).
Ah, sì?
In questi anni mi sono fatto piacere tante, forse troppe?, cose; dicendomi, io, neanche più tanto tifoso ma cantore delle cose in biacca e carbone.
La scarsa ambizione, scambiata neanche troppo alla pari con un bilancio con utili da azienda specchiata. Credevo fosse calcio, invece è una essepià qualsiasi.
La supìna posizione rispetto alle tifoserie avversarie, trattate in casa nostra con guanti bianchi che neanche la servitù di colore in Radici verso il razzista bianco degli stati del Sud. Ricambiati, noi a casa loro, col sequestro (colgo fior da fiore) di simboli che rimandassero alla trasferta udinese di Liverpool, o anche semplicemente riportanti la zebretta nostro blasone (quando quello domestico, ignoranti gli zelanti steward, è il toro e non il quadrupede bianconero).
I preliminari gettati al vento, presentandosi all’Emirates con Neuton ed Ekstrand in difesa contro Van Persie e Theo Walcott.
Adesso vogliono prendersi la mia storia, la mia memoria, il mio cuore perso su quelle rive d’erba che mi piacevano un miliardo di volte più delle multicolori tecnologiche curve di oggi.
Se la tengano.
Tenetevela. Per uno, due, mille milioni di sponsorizzazione da spendere per ammodernare campi di calcio, o per ciò che desiderate. Soldi, soldi, soldi. Avete ragione, avete vinto, voi skai premium e il vostro calcio-business che sfotte ogni giorno Eupalla.
Siete il nuovo che avanza, siete quelli che anticipano il futuro; siete allineati preparati colti, e non sul fatto come dicono i detrattori fra i quali non mi annovero. Sono vecchio, e come ad un vecchio zio avete preso via il ricordo della prima ragazza a sedici anni.
Felici? Orgogliosi? Bene.
Chi sono io per oppormi al progresso? In fondo, anche lo stadio dei rosanero torinesi si chiama Chrysler Stadium. Ah, no? Juventus Stédium? Oh, (non) capisco.
Chi mi conosce sa cosa il sottoscritto pensi del futuro dell’Udinesecalcioessepià. Non lo scrivo qui, perché farebbe nessuna differenza. Ed in seno a questo progetto ci sta di battezzare l’edificio con il marchio di fabbrica di una casa d’auto romena. E poi il mio parere conta zero, lo so. Specialmente considerando il fatto che, se anche domani leggessi una serie di commenti pesantissimi, di qui a tre giorni (mettendo in preventivo un buon risultato a Carpi) il silenzio regnerebbe sovrano. Come sempre. Da “vogliamo Manzo e Storgato” a “ridateci Pinzi”. Siamo di gran cuore e corta memoria, dimentichiamo tutto. Presto.
Dico solo che la proprietà, qualsiasi essa sia, della squadra che meno indifferente ci risulta, ha posto l’ultimo chiodo sulla bara del mio calcio, quello di cui leggo sento vedo parlare grazie a reti sociali, per una volta non inutili, assieme a giocatori (mai ex, nel mio cuore) che infinite gioie ed ancor più spesso sportivi lutti mi addussero. Prendo atto con sportività, io sì, ché ne sono capace; ma questo è un punto zero. Il mio pallone si ferma qui. Con il tramonto della dicitura “Stadio Friuli”, che ricordava emigranti sofferenti eroici coraggiosi, e vittime di un orcolàt terribile lungo implacabile.
Lo dirò, a Galliano di Scarborough, uno che ha targato l’auto col nome del paese natale, che la squadra del suo cuore gioca in un bellissimo stadio (di cui a lui non frega nulla) marchiato come una macchina economica (che non guiderebbe mai). Cosa mi risponderà? Sorriderà. Masticando qualche interiezione friulana e l’ennesimo “goddamn Udinese”.
Grazie, ci tenevo proprio. E comunque nessuno dubitava che lo stadio fosse passato da un volgare “comunale” ad un impianto “di proprietà”. Serviva mica chiamarlo Dacia. E io? Beh, il vostro spot lo diceva: “noi vogliamo molto di più”
Franco Canciani