
Volevo resistere dallo scrivere, volevo evitare di accodarmi al coro dei R.I.P., dei coccodrilli, degli “era il mio attore preferito”.
Non ce l’ho fatta.
Perché era uno dei miei attori preferiti. Perché aveva saputo convincermi (cosa non facile per il mio carattere) sia nei panni di uno sfasato extraterrestre, che in quelli di un insegnante anticonformista, ma anche come “antieroe” in Insomnia o One Hour Photo. Riuscì anche a piacermi come donnona inglese o a farmi apprezzare una colorata tragicommedia new-age come “al di là dei sogni”. A farmi però levar il cappello fu il rifacimento di un film che ritenevo (e ritengo) pietra miliare della mia formazione culturale, “la cage aux folles” dove riprende il rimmel del grande Tognazzi e ne ripercorre la sontuosa recitazione, dando profondità ad un tema apparentemente leggero.
Sembra abbia deciso di togliere il disturbo, a sessantatré anni, il signor Williams. I più colti sottolineano come questo sia retaggio dei grandi artisti, secondo me (fosse confermata la volontaria dipartita) è segno di una democratica distribuzione di un certo, sottile mal di vivere.
Democratica, sì. La depressione colpisce il grande artista, colpisce l’operaio sfruttato, colpisce il giovane imprenditore che una mattina di dicembre si sente dire dal curatore fallimentare, con immenso tatto, “consegni le chiavi dell’azienda e si astenga dal tornare qui”, dove quel “qui” aveva assorbito l’ottanta per cento delle sue ore di veglia negli ultimi dieci anni.
Non è una questione di soldi, di vita reale, di agio o disagio; è sottile, quel male, e si insinua fra cellula e cellula, sinapsi e sinapsi, e sussurra dolcemente al tuo orecchio che no, non piaci a nessuno e no, non vale la pena di andare avanti.
Sentii nominare Williams (fino ad allora me lo ricordavo solo vestito da Mork) nel 1982 e ne rimasi scioccato. Avevo tredici anni, e non comprendevo cosa ci facesse un uomo come lui ad un droga-party dove una groupie iniettò una pesantissima dose di speedball al mio mito di allora, John Belushi. Evidentemente già trent’anni fa quel sottile e subdolo tarlo gli si era incuneato dentro. Nè la cocaina, né il successo, ne l’amore del pubblico né tantomeno l’alcol hanno contribuito a farlo stare meglio. Già, perché purtroppo di depressione si sta meglio, ma dalla depressione non ci si può dire mai del tutto e certamente guariti.
I maligni diranno che da dieci anni non imbroccava un film; che ultimamente aveva dedicato tempo ed energie a pellicole discutibili, spesso d’animazione o infantili, solo per far cassetta; che aveva esaurito la sua fiamma troppo rapidamente: palle. Sesquipedali bugie. Sì, forse dal bellissimo e poetico “l’uomo della notte” aveva dato poche prove di grande recitazione, ma scorrendo a memoria i suoi capolavori sfido chiunque (esclusi i pochissimi mostri sacri) ad annoverarne nel proprio carnet solo un decimo.
Ma è vita, ora. Mortale, per noi; eterna, per lui. Ora sì che il sottile male lo ha abbandonato, ora sì che Williams ha abbandonato il male. Adesso finalmente potrà improvvisare in eterno, e se gli scappa potrà palleggiare con l’Angelo PMM25 nel mio personalissimo empìreo. Dove di certo qualche angelone biacca e carbone gli dirà “mah, cjale, a mì no tu mi as mai fat ridi”. E lui ne riderà, eccome se ne riderà. Gli sia lieve la terra, grato il cielo per la grandezza dei ricordi e delle sensazioni che ci ha lasciato. E anche se non c’entra, alti volino canti, cori e vessilli per lui, Williams McLaurin Robin da Chicago, nell’Illinois.
But O’ heart! Heart! Heart! O’ the bleeding drops of red, where on the deck my Captain lies, fallen cold and dead.
Ciao Capitano, ci vediamo più tardi.