
Grandiosi Gabriele Lavia, Federica Di Martino, Jacopo Venturiero, Ian Gualdani e Beatrice Ceccherini a rileggere Eugene O’Neil nel Lungo viaggio verso la notte.
Due lunghi atti con una, scenografia (Alessandro Camera) che da, se stessa parlava del dramma di un anziano attore prigioniero di rimpianti,assieme a una moglie drogata e a due figli alcolizzati.
Tutti prigionieri. Che notte!
La gabbia esistenziale sul palco era costituita da una vera struttura chiusa dalla quale non ci si può sottrarre se non brevemente per poi rientrare nella disperazione.
Una grande doppia biblioteca stava a significare, a nostra lettura, che la cultura non risolve sempre i problemi esistenziali, non completa, non è sufficiente quando il viaggio verso la notte si fa lungo e impenetrabile.
Il degrado a causa della malattia, la devastazione della dipendenza, mostrano un tratto della società americana che non ti aspetteresti, soprattutto al pensiero che l’opera di O’Neil nasce tra il 1941 e il 42 in piena esuberanza patriotica e voglia di riscatto dopo la profonda crisi economica e durante le ansie della guerra.
Storia di una “famiglia e della sua rovina”, scrive Lavia per le note di regia.
La storia del grande attore che fu James Tyrone, si trasforma nella sua miseria e nel suo fallimento, una storia che ha un doloroso sapore autobiografico, perché O’Neil scrisse questo viaggio all’indietro quando oramai era vicino alla morte.
Lunghi applausi alla gestualità dinamica degli attori sul palcoscenico e alla freschezza giovanile di un non più giovanissimo Lavia che comunque non ha paura di salire su di un tavolo per accendere la luce, facendolo anche più volte, perché la notte è lunga e abbiamo bisogno di illuminarla.
Vito Sutto