Esistono drammi così ben scritti che meritano rispetto. Rispetto per le parole, le pause, per tutto ciò che dicono oltre queste. È il caso di Madre Courage e i suoi figli, del suo modo unico di parlare di guerra, di conflitti interiori e di ciò che resta alla fine di tutto.
La protagonista vive ricavando profitto vendendo agli eserciti beni di prima necessità per sostenere i suoi tre figli.
Il periodo è quello della guerra dei trent’anni fra cattolici e protestanti.
Paolo Coletta rende omaggio a Brecht con un’interpretazione “di sostanza”, ottenuta tramite una scenografia scarna con una sola quinta a specchi (invito a osservare gli eventi oltre la rappresentazione, oltre il tempo e la facciata) nel centro della quale irrompe un cratere-sole. Le luci sono gestite ad arte per sottolineare il clima a tratti surreale e grottesco dell’impasto drammaturgico. Il “carro” a cui la protagonista sacrifica tutto, resta un baule nero, un concetto, così come è giusto che sia, non si scivola nella tentazione di dargli più importanza di quanto meriti. Tutto è incentrato sul l’inganno della guerra.
Ingannevole è il cinismo della protagonista (grandissima interpretazione della Paiano, chapeau), il coraggio di Eilif, l’ingenuità Schweizerkas, la bontà del cappellano.
Soprattutto lo è la fragilità di Katrin che sta in silenzio per attendere il giusto momento per fare rumore, sacrificandosi per salvare un intero villaggio.
È la resistenza secondo Brecht, far passare la tempesta, piegarsi all’uragano come un fusto di albero, evitare di spezzarsi per rialzarsi appena le condizioni lo permettono.
Katrin sottolinea tutte le “azioni”, è la vera protagonista e lo è nell’ombra del suo silenzio, oltre i torti subiti. Resta se stessa, subisce la guerra ma non si spezza.
Questo è teatro, che piaccia o no, questo è.