Si è appena concluso il Vinitaly 2012, kermesse enoica che ha raccolto a Verona, dal 25 al 28 marzo, produttori di vino, distillati ed olio d’oliva di ogni angolo d’Italia e del mondo. Assieme al Vinexpo di Bordeaux è considerata la vetrina più importante per le eccellenze nel vino, tanto da attirare acquirenti, degustatori o semplici appassionati da tutto il globo.
Per chi scrive era la quindicesima partecipazione, e ogni anno la meraviglia risiede nel livello medio del bicchiere che ogni azienda, dalla più artigianale alla più grande, riesce ad offrire. A metà degli anni novanta non era raro trovare, specie da aziende meno strutturate, vini con imbarazzanti note derivanti da cattive pratiche di vigneto o più spesso di cantina; oggi questo è quasi del tutto scomparso, e la selezione di degustatori e “buyer”, ormai quasi certi della qualità e della costanza di ogni potenziale fornitore, si basa su altri parametri, principalmente sulle “three P: positioning, packaging, price” – posizionamento, confezione e prezzo. Non è una scelta facile, spesso la bilancia pende dalla parte del produttore più… “simpatico” e coinvolgente, segno che nell’epoca della globalizzazione totale e del multimedia gli affari si fanno anche e soprattutto fra persone prima ancora che fra aziende.
Il mio lavoro mi ha permesso di spaziare fra i numerosi padiglioni, ove il classico e l’ultramoderno si rincorrono senza soluzione di continuità, rendendo spesso difficile conservare la tabella di marcia che ci si ripropone di rispettare alla lettera. Devo però dire, lasciando da parte il campanilismo tutto friulano che ci distingue, che l’area FVG era la più bella. Sobria di legno chiaro, le torri indicatrici dagli affascinanti nomi femminili, e poi tanti amici a far degustare calici di vino, testimoni di sofferenza, emozione e tanta passione.
Proporre e vendere vino non dovrebbe discostarsi dal commercializzare, che so, bulloni o abbigliamento cinese. Non è così. Perché? Mille sono i motivi: noi persone del vino non siamo del tutto normali, sempre in equilibrio precario fra scienza, tecnica, superstizione e irrazionalità; il prodotto-vino, poi, è figlio del suo tempo, delle sue stagioni e della sua natura. Un’annata secca, piovosa, “malata”, una gelata pasquale o una grandinata d’agosto possono essere parzialmente corrette in cantina, ma lasciano comunque un segno. Sta al produttore far capire al cliente come questo sia nell’ordine delle cose, come nessun vino possa essere paragonato ad una nota bevanda frizzante, dalla composizione segreta ma invariabile, proprio perché gli ingredienti ce li mette la natura e non noi… Grazie a Dio!
Tante grandi proposte ho assaggiato, nessuna delle quali citerò per non offendere gli amici che mi dimenticassi di menzionare: com’è facile far impermalire un produttore, capace di tenere il broncio perché collabori con Tizio e non con Caio; Vi basti sapere che alle prossime “Cantine Aperte”, il 26 e 27 maggio, dovunque andrete e qualsiasi vignaiolo incontrerete, berrete bene.
Mi piacerebbe vedere più Friuli sui menù dei ristoranti e sugli scaffali dei wine store nel mondo, ma so che questo, oggi, è reso difficile non solo dalla concorrenza dei vini bianchi di Nuova Zelanda o Sudafrica, o dai vini rossi di Australia o Argentina; il nostro “nemico” più acerrimo sta nelle city economiche delle grandi metropoli ed ha causato quella che i più informati chiamano recessione globale. La viticoltura friulana prevede spese elevate, e la bottiglia riflette tale costo: oggi meno clienti, rispetto a qualche anno fa, sono disposti a spendere qualche “carantàn” in più per un gran vino. Si salvano i grandi nomi, spesso purtroppo restano ai margini “grandi, piccole” aziende. Starà a noi convincere il mondo che si sta sbagliando e non può prescindere da un buon bicchiere friulano.