Partistagno mica si esauriva nella puntata cinquantaquattro! Non si accontenta del Palatium inferiore e, tutto fiero e orgoglioso, ci conduce per mano attraverso gli altri suoi lûcs. Una serie di passerelle ci portano, infatti, agevolmente, in ciò che sta alle spalle di questo primo, grande edificio: lì si apre un mondo! Un mondo ancora più antico, chissà quante volte fatto, rifatto, aggiustato e modificato. Un mondo fatto di pietre sapientemente accostate, di travi, di terreno in pendenza e di fortificazioni murarie. Di quanto ci appare innanzi scegliamo subito una meta: l’immancabile cappella, vero e proprio mosaico di epoche e di vicende che la sua struttura esterna già in parte svela. La facciata principale, infatti, ha interventi ottocenteschi e, in cima, una vela dei primi Novecento. L’interno è straordinariamente…sbilenco! Le pareti laterali sono completamente fuori asse rispetto all’abside e all’altare. Lecito supporre che, par antìc, la gleseuta e cjalàs di una altra banda e avesse dimensioni e pianta diversa rispetto all’attuale. Senza contare le tracce di porte murate e altri segni che, inequivocabilmente, fan ritenere che la sacra costruzione rispettasse altro disegno. E je bièla, cumò, ancja par chèl. E’ intitolata a Sant’Osvaldo e regala al visitatore quel che, per nostra fortuna, molte nostre chiesette hanno: una vivida e ben restaurata serie di Apostoli che, dietro l’altare, ritti al muro, ci guardano come guardavano nostri più rumorosi e sferraglianti predecessori, magari appesantiti dall’armatura ma ancora con la necessità di farsi un rapido segno di croce prima di scendere in campo di battaglia.
Apostoli, Crist in crôs, San Cristoforo e altro ancora son lì a piantarci gli occhi addosso e, mentre lo fanno, ci vien da chiederci: “com’è ‘sta storia, dovremmo esser noi a guardar loro!!!”. Capiamo, però, che la nostra presenza è una briciola rispetto a tutto ciò che ci circonda, a quel Passato (parliamo del Duecento, almeno) che osserva questo Presente con l’aria severa di chi la sa lungjia sulla natura umana…
Nota informativa: pare che la scuola artistico – pittorica di Vitale da Bologna avesse sfornato ottimi pennelli, visto che gran numero di affreschi – questi compresi – ad essa vengano attribuiti.
Ora che abbiamo avuto il nostro momento di spiritualità antica e di fremito stendhaliano, proseguiamo con il “pezzo grosso”: il possente mastio.
Un robusto parallelepipedo con finestrine poste in alto e strette assai, tanto per scoraggiare il freddo e i cattivoni; pitòst scurùt dentri, ancora in fase di ristrutturazione…o forse rimarrà così, chissà. Il pavimento, infatti, è sconnesso ed è un mix di scavi, sabbie, pietre e mattoni; in un angolo è stato ricostruito un forno o simile, ma con fondatezza si ritiene che non fosse quella la sua sede originaria. Niente solette a delimitare i piani, solo una scaletta a pioli non accessibile al turista. Muso duro, il mastio, di pocjis cjàcaris. Del resto è lui che deve assicurare estremo rifugio e salvezza in caso di attacco; è lui che deve dimostrarsi inespugnabile. Non sono ammesse frivolezze, nella sua struttura, né orpelli: dut d’un tòc al a di jessi.
Recita un utile cartello esplicativo piantato nelle vicinanze che la torre – mastio aveva anche funzione abitativa ed era parte della Domus…che, però, non vediamo! Qui la guida ci soccorre, indicandoci, ai piedi della gradinata di accesso al torrione, una serie di tronchi di muro che delimitano sagome quadrate. Eccola, la Domus signorile o ciò che ne rimane. Gran scrigno di reperti archeologici e gran immondezzaio, dato che, ad un certo punto, un canto di essa venne adibito a discarica (a piazzola ecologica, diremmo noi, ora). Alla faccia di chi pensa che l’Uomo Medievale fosse un disordinato! Cocci, avanzi, rottami vari venivano buttati tutti in un unico posto ad hoc, oggi importante fonte di conoscenza. Cosa manca? Ah, sì, considerando che senz’acqua non si vive e che quassù ci vivevano eccome, manca – o, meglio, c’è – la cisterna per raccoglierla.
Per vederla dobbiamo andare sul retro, tra il mastio e la cappella. Eccola, coperta ma ripristinata, a spiegare le strategie di sopravvivenza attuate dai signori di secoli e secoli fa e dai loro sottoposti.
Per lo meno fino al Cinquecento, epoca in cui il castello venne abbandonato alle fauci del bosco.
Fasìnt doi conts, ci son voluti altri cinquecento anni e passa per rendere il tutto di nuovo “abitabile”: non proprio un’inezia, diremmo!