Ci eravamo lasciati con l’amaro in bocca, nelle ultime riflessioni della puntata precedente?
Bisogna porre repentino rimedio e chi lo fa è proprio la mònt, la montagna estiva, che sa essere dolce e accogliente, generosa di profumi e di vivificanti zone ombreggiate.
Già quel fresco mentolato frammisto alla resina che inonda le narici e lascia persino stupefatti è solo il primo dei regali che l’escursione ci fa: in giorni torridi e con un sole urlante e rabbioso che punge la pelle, noi, bianchicci – razza – da – città, ci godiamo il miracolo e ne invochiamo uno successivo. Per nostra fortuna, questo non tarda a venire e a confermarci quanto sopra. Prima, però, c’è un prezzo da pagare, cioè il tratto iniziale del nostro sentiero, piuttosto in pendenza e faticosetto per le nostre gambe ancora non scaldate nè rese agili e sciolte dal camminare. Ne avevamo tenuto conto e non ci lasciamo prendere dallo sconforto rinunciatario; all’inizio ogni salita sembra dura e al di sopra delle nostre possibilità ma quel briciolo di esperienza che, umilmente, possiamo vantare sa dare il giusto peso alle cose.
L’intrapresa muove i primi passi imboccando l’immancabile sentiero CAI che guizza alle spalle di uno dei noti alberghi del Pramollo.
Da lì e je un tic tiradùta ma non è proprio il caso di lamentarci troppo: nel giro di qualche decina di minuti – pause e conversazioni comprese – siamo ai piedi del monte Auernig, che svetta alla nostra sinistra. Da lì la via è paradisiaca, anche se facciamo il paragone senza, ovviamente, cognizione di causa! Come spesso accade tra le montagne furlàne, dopo quell’iniziale ritrosìa o pudore o difficoltà a dar confidenza (che porta il camminatore ad avanzare un po’ perplesso, chiedendosi in quale stretto pertugio s’è infilato), il panorama si aaaaapreeeeh! e sorride, ampio e beneaccogliente! Ce bièl. Ce roba che no crodèvi.
Idem qui. Si sviluppa davvero, innanzi a noi, un manto prativo solcato dalla comoda stradina dolce e sinuosa, senza più grossi saliscendi. Intorno, un ampio respiro di pareti rocciose distanti a sufficienza per poterle ammirare nella loro possanza. A ciampa, altri monti più vicini e in attesa del nostro eventuale arrivo. Noi, novantanove formichine, camminiamo l’una davanti all’altra e immaginiamo l’effetto solletico che possiamo suscitare sulle cuestes dei Grandi di roccia.
D’un tratto, mentre il Prof. introduce l’ambiente dal punto di vista geologico, lo sguardo esploratore si muove a mo’ di drone biologico e scorrazza tra conifere e declivi.
Ma…ce isal??? Un Crist tal len???!!! Non può essere la stanchezza, non c’è stato neppure il tempo per accumularla! E niente visioni mistiche, siamo solo pùars pecjadôrs! Epùr al è un Crist, chel là! Un Cristo che non riesce a staccarsi dal tronco! Un bassorilievo scolpito da una mano maestra che ha voluto ringraziare il Sacro per la possibilità di godere di uno scenario così trionfante! L’emozione dell’Inattesa Figura colpisce chi riesce a scorgerla, fatto che non riguarda tutti: sì, perché anche chèl Crist tal len al è un pôc furlàn, non si fa tanto vedere e quasi si scuìnt nella macchia di abeti.
Che fortuna averTi colto. Abbiamo potuto esprimerTi di persona tutto l’apprezzamento per il Capolavoro che hai fatto. Ci chiediamo quanti altri ne stai realizzando e quanto distratti, ciechi, ottenebrati siamo per non accorgercene e per non custodirli con tutto l’amore del mondo…
Ma chèst al è un discors difìcil. Nessuna voglia di intraprenderlo, ci scuserai. Son tempi di smarrimento, questi, dove i valori o non ci sono – va ben dut e il contrari di dut – o vengono imposti (Libertà protesta e reclama, poi cade a terra, sfinita).
Torniamo a la mont. Cjamina, cjamina, ci sarà una casera, no? Una? Due! No,no, tre! Ne troviamo, eccome e, tanto per far nomi, ne scioriniamo alcuni, sperando che la memoria non ci tradisca: Tratten (ah, no, scusàit! Quella l’avevamo incrociata salendo in auto verso il parcheggio di Pramollo), Auernig (facile, si chiama come il rilievo che la guarda dall’alto), For e cussì via…
Tant’è che proprio alla casera For si decide di far la pausa pranzo: toglietevi dalla testa cose sciccose con tanto di floride signorine vistude cun flocùts e rosutis che vi servono il latte appena munto! For è malga senza anima viva, serve da punto di appoggio per il pastore ma non è abitata. Per noi va più che bene: ci basta una mezz’ombra e qualche pezzo di panca su cui appollaiarci per consumare i nostri preparati da zaino. Di più non dimandare, come scriveva Uno famoso, viaggiatore sempre accompagnato da guida DOC.
Siamo in tanti e, letteralmente, compiamo una pacifica invasione alla For, a quota 1614 slm! Ne prendiamo momentaneo possesso, la viviamo e apprezziamo quel poco (anzi, quel tanto) che ci porge.
For ha struttura essenziale, come si dice oggi: legno arso dal sole, ingrigito e indurito; pietra pura e senza macchia; uno strato spesso di escremento secco di bestiame come tappeto esteso tutto intorno. Vonda.
Il tamer con l’abbeveratoio al centro è il tempio, la parte in cui si provano maggior emozione e raccoglimento. Da lì, volgendo le spalle alla casera, a sinistra c’è l’edificio adibito a ricovero per gli armenti, a destra c’è quel che rimane di un’altra struttura, mangiata da un incendio passato e, ora, diventata al pari di una rovina di epoca romantica: un solo, unico e orgoglioso muro di piera blancja e cjalda; le finestre senza imposte, occhi spalancati tra un ipotetico fuori e un presunto dentro (dimensioni, ormai, inesistenti); null’altro.
Noi…siamo fuori o dentro? Bella domanda anche questa; qui non si scherza e ogni passo conduce a una resa dei conti. Il gioco, però, è sin troppo facile: facciamo finta, sfacciatamente, di non udirla e andiamo oltre. Di pochi passi, però. La casera si erge su un cocuzzolo con un panoraaaaama da cartolina, se ancora ci ricordiamo cosa essa sia!
(Continua nella parte terza, puntata numero cinquantotto).