E’ proprio a fronte di un fine settimana appena trascorso sotto un bel sole e temperature da beatitudine (nonchè dei primi appelli di qualche inguaribile disilluso che già invita il Popolo Elettorale di fine maggio ad “andare al mare invece di votare”), ci vien da proporre un recente ricordo di una nostra scjampada sulle coste nostrane.
Era la seconda metà di aprile ma il bavero rialzato della giacca rivelava meteo avverso; sulla testa premevano nubi sglonfis di aga, mentre un aiarìn di che mai raddrizzava subito ogni vago tentativo di abbandonarsi alla contemplazione e al ritmo ipnotico delle onde. Il mare, infatti, faceva molta bava e ringhiava rabbiosetto, continuamente aizzato da soffi e sbuffi freddi e ruvidi di vento che lo mettevano sul chi – va –là.
Peccato, l’idea di imbacuchisi un’ora a guardare l’orizzonte liquido e indistinto non era male e avrebbe potuto regalare un piccolo trance con immersione in un altrove vago dai confini mobili. Nia di fâ! Concretezza innanzi tutto e duri al pezzo! Cos’altro, infatti, sa tenerci vivi e presenti a noi stessi e al qui – e – ora se non una cascata di brividi di freddo che rotolano, acuminati, lungo la schiena???!
Ciononostante, il Furlàn medio sa essere molto cjavòn dûr e molla l’intrapresa solo quando ha consumato già da un pezzo la riserva delle sue risorse. Sarà per orgoglio, sarà per spirito di sacrificio o per l’umanissima voglia di esser superiori alla propria natura fatta di finitudini (e potremmo continuare con caterve di ipotesi miste a luoghi comuni), fatto sta che – freddo o non freddo, budiça o non budiça – in spiaggia ci eravamo infine conficcati come pali a guardare laggiù e a vedere…se succedeva qualcosa dentro o fuori di noi!
Non è poi così importante specificare il luogo preciso di questo nostro stare ma lo facciamo per dover di cronaca e, chissà, perché qualche prossimo osservatore pensi un poco anche a noi quando avrà in sorte di raccogliere con lo sguardo una presenza come quella da noi percepita.
Iniziamo con ordine, specificando che ci trovavamo nella amata isola di Grau, vero gioiello naturalistico e storico – artistico – culturale. Decisi come eravamo a fare gli “orsi al mare” (ne converrete, cari Lettori, che di questi tempi nessuno si meraviglierebbe di trovarsene uno sotto l’ombrellone, soprattutto dopo le recenti comparsate nei pressi del casello di Villesse!!!), avevamo scelto di lasciar l’auto verso il quartiere Città – giardino e di entrare in quel tratto di spiaggia a pagamento immediatamente precedente le pinete. Da lì la stessa Grado Pineta è ben visibile e vicina e lì non arriva granchè della mondanità del centro storico, per lo meno fino a che la stagione balneare non prenderà il pieno avvio.
Pace e silenzio. Relativo, quest’ultimo:il mare non è sempre un signore distinto e taciturno! Sa alzare i toni e sovrastare, con la propria parola, l’altrui discorso, tacitandolo senza altro diritto di replica. Allora si tace, ci si ripara un poco e si allunga l’occhio.
Quella porzione di Adriatico innanzi a noi si presentava grigia assai e fusa con il lembo di cielo che la sovrastava. Se non fosse stato per la schiuma salata, non saremmo proprio riusciti a stabilire delle strumentali linee di demarcazione. Dopo un iniziale ritrosia, ben presto ci lasciavamo disorientare volentieri, togliendo briglie al pensiero e dandogli la libertà di farsi coriandoli. Che leggerezza!
E’ stato proprio durante uno di questi respiri di libertà in cui davvero nulla, là fuori, sembrava accadere, che la pellicola dell’orizzonte si è dipanata e ha lasciato intravedere una sagoma.
La cappa di nuvole, le particelle umide in sospensione nell’aria e quelle scappate via dalla superficie del mare creavano un vero e proprio velo, una elegante cortina che, al più, lasciava intuire ma non dichiarava limpidamente cosa vi si celava dietro. Occhio paziente ci raccontava, poi, che la sagoma imponente apparteneva ad una nave passeggeri, forse una nave da crociera partita da coste familiari e relativamente vicine. Eppure il pensiero che innumerevoli tonnellate di imbarcazione si potessero ridurre a una parvenza ci faceva un po’ sorridere e faceva risuonare il vecchio monito a ridimensionare, relativizzare presunti pachiderma che appesantiscono o avviliscono le nostre giornate e a cogliere, con spirito pronto, sussurrate bellezze in parte celate ma reali e, soprattutto, presenti nelle nostre vite. Infondo, come ancora oggigiorno canta una allegra e significativa canzone pop italiana: “Coraggio! Siamo solo di passaggio”, anche noi, come quella grossa nave stile fantasma da ti – vedo – e non – ti – vedo!