Da qui al duemiladiciotto ne avremo a iosa di occasioni in cui sentir parlare di centenario della Grande Guerra. Si spenderanno mille e mille parole, convegni, conferenze, dibattiti. Rivedremo film e vecchie cartoline, ripenseremo con tenerezza agli anni di scuola in cui ci chiedevano “le cause profonde dello scoppio della Prima Guerra Mondiale” e “la goccia che fece traboccare il vaso” (così la maggior parte dei manuali di storia definiva l’assassinio dell’Arciduca e consorte)…Saremo partecipi in prima persona dell’emozione di ripercorrere parte dei sentieri di quei poveri Soldati, avanzando noi, invece, con equipaggiamento high tech e suola in gomma – antiscivolo – traspirante lungo quelli che ora denominiamo “itinerari tematici”. Ci sorprenderemo, magari, a discutere sulla situazione geopolitica di allora e ci azzarderemo ad elaborarne nuove visioni e a trovare ulteriori interpretazioni. Chi l’avrebbe mai detto, anche quelli che solitamente leggono romanzetti cadranno nella tentazione di acquistare un saggio di qualche valente e preparato studioso della materia.
Conclusione? Tutte queste riflessioni mi fanno esclamare a cuore aperto: viva gli anniversari!!!
E’ inevitabile che il rischio inflazione/banalizzazione/consumismo sia reale e che qualche frantume retorico di quel che si dice “amor patrio” ci scappi ma…..vogliamo considerare anche i benefici???!!!
Il più semplice e schietto è dare una bella rispolverata a informazioni assimilate a suon di mappe e date di battaglie e trattati di pace, chiusi poi per anni in qualche stantìo cassetto della memoria (a meno che uno non sia un appassionato cultore, un ricercatore o un insegnante). Cogliendo la palla al balzo, non sarebbe una cattiva idea focalizzare l’accaduto localizzando puntualmente gli eventi bellici e sociali in quell’aspra arena che fu il FVG.
Il secondo beneficio è che il ricordo e la rielaborazione collettiva di un passato comune– se fatti con lucidità e onestà intellettuale – crepano il muro incappottato dell’individualismo e ci pongono davanti a vicende di sofferenze e di sforzi condivisi dai nostri padri, nonni, predecessori. Nella mai esausta ricerca di possibili soluzioni costruttive ai guai socioeconomici dell’oggi, c’è da chiedersi se sia giunto proprio ora il momento buono per reimparare da zero ad essere e a fare “comunità”. Puo’ darsi che il risultato – in termini di valori e di risorse emergenti – superi la semplice somma degli addendi.
Terzo: troppe volte diamo i beni civici di cui godiamo per scontati! A pancia piena e senza sibilo di proiettile ad accapponarci la pelle, dimentichiamo spesso la grande bellezza (quella vera) che abbiamo: siamo liberi di girare per strada – o anche di stare nelle nostre case – senza paura di saltar per aria! Non conosciamo neppure lontanamente cosa sia il rinunciare alla cura della propria persona, per non parlare della fame! F-a-m-e: parola breve, sembra innocua eppure…provate a star un solo giorno senza mangiare, poi interpreterete facilmente la causa della vostra irritabilità frammista a brontoli enterici detonanti e una spossatezza via via crescente.
Ultimo, but not the least: Giovanìn. Giovanìn era un ragazzo, con la faccia fresca e intatta come ne vedi tante, là fuori; Giovanìn era un uomo fatto, aveva dei figli che lo aspettavano a casa; Giovanìn era un professionista, un imprenditore, un agricoltore; era figlio, con genitori anziani e in pensiero per lui; era marito, compagno, fidanzato, con una scommessa nel cuore e un domani davanti.
Giovanìn cui dispiaceva proprio morire – che fregatura! – perché aveva ancora tante idee che gli frullavano in testa e una bella mole di progetti da realizzare, beghe da dipanare, giorni da inanellare uno dopo l’altro in una vita possibile che avrebbe voluto provare a vivere.
Giovanìn, PRESENTE.
Molti ricorderanno la serata inaugurale del Mittelfest 2014 a Redipuglia: era domenica sera, 6 luglio. Muti dirigeva il Requiem di Verdi in onore delle Vittime di tutte le guerre, senza distinzione di tempi e di fortune. Migliaia di persone e personalità assistevano, ascoltavano, presenziavano, ognuno con il suo bagaglio di intenzioni. Una cosa è certa: neanche gli animi più refrattari e coibentati riuscivano a restar indifferenti alla solenne scalinata del Sacrario, per l’occasione rivestita da drappi di luci a tema.
Mai vista una Redipuglia così.
Quelle luci dalle tinte fortemente e volutamente simboliche (rosso, tricolore, viola della passione, nero in un dinamismo che contrastava con la ferma presenza del fisso bagliore delle tre grandi croci poste sulla cima) annodavano la gola, graffiata dalle lettere della parola “presente” reiterata come noto.
Ancor più forte, pero’, è stata un’altra visione, molto meno architettata e predefinita: una massa quasi per nulla rumorosa di persone affollava la carreggiata muovendosi in truppa lenta, compatta e pacifica, a piedi, al termine del gran concerto, per far ritorno alle auto o alle case. Il traffico era stato ovviamente deviato per l’occasione e la strada era diventata, per un buon tratto, una via pedonale. Avanti, ammettiamolo, tutti noi generalmente sfrecciamo guidando a muso dritto davanti a Redipuglia e, immancabilmente, pensiamo che l’ultima volta in cui avevamo posato il piede lì era alle elementari, in gita con la maestra. Che sia ora di ritornarvi? Da grandi è tutto un altro vedere!
Si oltrepassa la tomba del Duca d’Aosta e, spingendo innanzi lo sguardo, gradino dopo gradino, tra oltre centomila Caduti, si risale il fianco del Monte Sei Busi. Arrivati in cima, si guadagna il Carso dove è inevitabile scivolare in qualche trincea o imbattersi in cippi e steli ad memoriam. Ci accorgeremo, allora, immancabilmente, di quanto il sacro luogo racconti i tempi in cui è sorto e sia denso di molti altri significati. Condizione necessaria per coglierli è fermarsi e osservare, procedere un passo dopo l’altro e rilevare gli indizi, leggere le iscrizioni, interpretare i simboli. Saremo, allora, pienamente immersi nella Storia e la penseremo in termini di Uomini e Donne che, volenti o nolenti, l’hanno fatta e vissuta. Per noi.