Battage mediatico non da poco per il primo weekend post – equinozio marzolino e post – eclissi: del resto una ventitreesima edizione non è mica cosa da poco! Il riferimento, come molti avranno già intuito, è alle recenti “Giornate FAI di primavera”, che hanno visto tantissimi attivisti e volontari – anche nella nostra Regione – impegnati nella meritoria opera di promuovere le bellezze architettoniche e culturali di questa bellissima Italia, specie nelle sue pieghe più nascoste, misconosciute, solitamente precluse al pubblico o, comunque, di non immediata fruizione. Quello del FAI è un invito bell’e buono a prenderci cura del nostro patrimonio, a partire dalle Cenerentole, dalle bellezze non commerciali, dalle mete non arcinote, bensì da quel che si ha quotidianamente sotto l’occhio e su cui poco ci si sofferma, vuoi perché si tratta di luoghi associati a funzioni di utilità pratica (banche, scuole) o spirituale (chiese), vuoi perché solitamente la loro porta è chiusa, a meno che non si conosca il proprietario o chi ne fa le veci.
Il FAI invita a segnalare luoghi che ci stanno a cuore in modo che questi ultimo vengano preservati dal degrado e dall’incuria e, nel migliore dei casi, vengano risanati e riportati all’attenzione e al godimento di tutti noi. Duncje, questa attenzione, chest amôr, questa cura dovrebbero – e dovranno, se non vogliamo perdere la nostra specifica ricchezza culturale e, forse, il nostro pane e la nostra intelligenza del futuro – scaturire spontaneamente di fronte a tutto ciò che è bello ed è valore per la storia delle comunità. Quante volte siamo passati davanti a un palazzo col tetto collassato, una casa colonica diroccata, un vecchio casello ferroviario abbandonato e sperduto nel mezzo di sabbiose campagne e ci siamo detti: cjale lì, ce peciât lassâ lâ ju dut chel ben di Dìu! I Vons si rivoltaràn tal caselòt! Servono tanti danari per ristrutturare, mantenere in buono stato, far rivivere muri ormai vecchi e stanchi; lo Stato non ha nancja un franc – cussì, amancul, al dîs – i proprietari – evidentemente – neppure o, in alternativa, non ne hanno l’interesse o non hanno raggiunto felici e stabili accordi sulle successioni ereditarie o su chissà quanti altri gròps e matèçs che noi non riusciamo neppure a immaginare…
Intanto l’intonaco si scrosta, le tegole mansuete si fanno da parte e lasciano entrare generosi catini d’acqua, le antiche travi di cjastenâr cedono all’altalena delle morbidezze dell’umido e del al ruvido del sole, le crepe ai muri portanti diventano ulcere inguaribili…Il malato, spossato, inevitabilmente s’accascia e si lascia morire – umile, lui un tempo così forte! – sulle proprie fondamenta, seppellendo le storie di tante vite già distudadis che lì avevano lavorato sodo o ballato con vestiti di lusso o, chissà, composto opere d’arte o scritto trattati.
Di certo, il nostro fare attenzione non ha il risvolto concreto di un assegno circolare e con esso non si paga il muratore ma è il primo, fondamentale passo. Osserviamo, documentiamo, segnaliamo quel che vediamo cadere a terra e che ci sta a cuore; magari prima o poi i soldi arrivano, o qualcuno/qualche istituzione trova tempo, risorse ed energie per iniziare a togliere l’edera che soffoca quell’antico capitello o le erbacce che imbarbariscono un parco abbandonato ma un tempo gentile. C’è di mezzo anche la burocrazìa con tutta la sua infinita schiria di problemòns che dovranno (anche loro!) giocoforza trovare soluzione ragionevole e semplificazione. Chi di dovere vorrà cominciare a pensarci su. Tutti noi, intanto, apriamo bene gli occhi e…cjalinsi atôr!
Mal che vada avremo capito che non sempre ci si può arroccare alla disperata e romantica difesa di un passato ideologizzato: largo al nuovo che avanza, in nome del ricambio generazionale anche…degli edifici. Se proprio il palazzo deve cascare o l’antico cascinale implodere, noi lo avremo individuato e, quando passeremo nel luogo che gli aveva dato i natali, ci ricorderemo di lui e del significato altamente simbolico che la sua presenza – e, ancor di più, la sua assenza – recano. L’esempio che qui vogliamo riportare è decisamente più a lieto fine: si tratta della Villa Caimo Mauroner di Tissano di Santa Maria la Longa (UD). Edificio inaugurato di fresco dopo un grosso restauro e mille peripezie: il Comune di Santa Maria la Longa, attuale proprietario, può ora metterlo a disposizione dei suoi abitanti e di tutti coloro che vorranno partecipare alle iniziative culturali che verranno lì ospitate (tanto per cominciare, già sono ospitati lavori del noto artista Celiberti, tra cui le sue suggestive “colonne”).
Il FAI, per il weekend appena trascorso, ne aveva fatto presidio. I numerosi visitatori accorsi avranno certo sperato di godere di affreschi, dipinti, mobilio originale. Nulla di tutto questo, forse qualcuno se ne sarà andato via deluso.
La villa, dentro, è quasi completamente spoglia: intonaci dritti e tirati di fresco, infissi intatti, piastrelle appena fugate. Sprofùm di gnûf, insòma. Rimane l’antica scala in pietra, alcune vecchie travi, il soffitto decorato del salone d’onore e poco altro. Niente parco, niente pertinenze in quanto rimaste di proprietà privata, probabilmente frammentata.
Cosa ci si porta a casa, allora, da una visita alla Villa Mauroner?
Innanzitutto il fatto di aver deviato dai soliti tragitti direzione Grado – Aquileia – Palmanova per venir dirottati a Tissano, paese poetico nel vero senso della parola (passarci e leggere i cartelloni per strada, per crederci!), con edifici molto antichi e suggestivi e un’altra villa, antica e signorile, così ben conservata che attualmente è adibita a servizio albergo. Uno dei classici casi in cui ci si dice: di chesist bandis o vevi nome di vignî apueste!
Anche chi era già di casa da queste parti avrà avuto le sue belle esclamazioni in saccoccia, vedendo una struttura così grande – il vecjo asilo Mauroner – tornare in salute alla faccia dell’abbandono e della fatiscenza per far rinascere, ci si augura, il cuore del paese (avete notato di quanti dei nostri paesi hanno il centro semidisabitato?).
Sentiamo la mancanza dell’impatto sensoriale con gli arredi tarlati, i colori degli arazzi, il fascino austero degli oggetti vetusti, è vero, ma percepiamo intensamente che gli unici superstiti alla falce del tempo, cioè i sassi di quelle pareti, trasudano, nonostante la nuova cipria, storia significativa. Il curriculum della villa è, infatti, di tutto rispetto: nel Seicento vi abitava il dott. Caimo, medico e luminare dell’Università di Padova, fatto poi conte dalla Serenissima. Lì giunsero nell’Ottocento i nuovi acquirenti, i Mauroner di Trieste, che videro, tra gli illustri componenti della famiglia, anche artisti e personaggi di spicco come Giuliano e Fabio.
Alzi la mano, ora, chi ha già sulla punta della lingua il pizzicore di una lista di edifici o luoghi cui si sente legato e che vorrebbe vivessero una – è il caso di dirlo – nuova primavera, animati e di nuovo adoperati e scaldati dalle presenti e future generazioni.
Il FAI può con le sue iniziative – stimolarci a diventare testimoni attivi dei nostri beni.
Tignìn a mens comunque che, ognuno, nel suo piccolo, ognuno come può, con o senza tessere di associazioni pur meritorie e fondamentali come il Fondo per l’Ambiente Italiano, noi dobbiamo introiettare una coscienza culturale e visasi e stâ daûr a lis robis , cioè accorgerci e prestar cure a ciò che ci circonda, impiànt un voli non superficiale ma con lo sguardo innamorato di chi vede l’importanza del bene che ha innanzi. Fatti non fummo per essere (solo) consumatori!