Vigilia di Ferragosto. Da buona turista a km zero, ho i piedi piantati sul suolo domestico e la mano che freme sulle chiavi dell’auto, al pari di quella di Pat Garrett sul cane della pistola. Dal pensiero all’azione passerebbe un nonnulla senonchè…alzo gli occhi al cielo e sbatto contro un muraglione compatto di nube blu all’arrabbiata. La perturbazione incombe ed è così intensa da sembrar un fungo atomico. “Da qualche parte – non lontano da qui – si sta già sfogando”, penso, un filino preoccupata di ritrovarmi, a breve, nel mezzo di un fortunale. Brutte notizie di recente cronaca raccontano, infatti, di disastrose precipitazioni con eventi calamitosi e drammatici che, a dir poco (sconfortano la Nazione et) scoraggiano qualsiasi aspirante gitante, anche il più motivato. Mi vedo già in balìa di scrosci d’acqua irosa e di vetri appannnati dai miei respiri claustrofobici. Desisto dal partire? Mi consolo ripiegando su qualche attività ricreativa o…pulente, in cucina??? No-no-no, è la vigilia di Ferragosto, l’estate meteorologica furlana 2014 vorrebbe in ogni modo costringere all’austerity e sopprimere qualsivoglia accenno di spirito vacanziero, inzuppando di umido piovano ogni straccio di programma o itinerario. Io, però, non depongo né armi né ombrelli e persevero. Scruto il cielo con attenzione e decido di dirigermi verso l’unico punto che sembra non fustigato dai temporali: xe quel de Monfalcòn, Bisiacarìa profonda. Da quelle parti la gente che incontro è solitamente allegra e solare, non si sa mai che questo loro animo influenzi positivamente l’andamento delle nuvole.
Chi la dura la vince, avevo ragione! D’altro canto, il cielo non mente e ora, man mano che macino i chilometri impaziente, un cielo tiepolesco e lontano mi si para innanzi: toni del rosa si sovrappongono a quelli dell’azzurrino e del grigio perla e hanno la meglio sul plumbeo temporale brontolone. Più procedo, infatti, più il sole mi fa capolino, curioso. Prendo coraggio e decido di forzare un pochino la mano, stuzzicando il nostro invocato astro fino alla costa. Mentre imbocco una delle bellissime/drittissssssime stradine della Bonifica, lascio a sinistra e a destra cartelli di locali aziende che vendono i prodotti della terra; immagino di trovarmi in uno di quei dipinti di Van Gogh sperduti nella campagna, con distese di giallo e verde ordinate e coltivate e, sopra, nubi minacciose incombenti e uccelli neri in ronda. A poco a poco, invece, le tinte si addolciscono e diventano meno violente, forse impastate dal vento dispettoso che spazza spesso la costa, anche quella più riparata.
Alla fine della lunga via mi ritrovo davanti il noto muraglione di terra dell’argine; oltre vi è il mare selvaggio, con innesti di salmastro ed enormi distese pelose di vegetazione di canna fitta che si alternano a sottili specchi opalescenti d’acqua. A tratti, la linea uniforme dell’orizzonte si interrompe per la presenza di grossi tronchi d’albero, reduci sbiancati e strappati da chissà dove. Cigni, garzette e pennutame vario albergano numerosi in zona: parte di essi fa comunella, mentre parte più consistente disdegna, sprezzante, qualsivoglia forma di scambio con altri che non siano della medesima specie…proprio come in un consorzio umano!.
Sulla sommità dell’argine, ideale confine fra due mondi, so esserci la bella (caldamente consigliata in quanto esteso e ottimo corridoio di osservazione floro/faunistica) pista ciclabile che collega, tra le altre, l’isola della Cona con Grado, passando per Valle Cavanata.
Sono ancora in auto, manca poco alla meta.
Costeggio il terrapieno e, finalmente, scorgo l’obiettivo: il Canèo! Si tratta di una bella costruzione simile a una palafitta (con piloni e struttura in cemento e altre parti in legno, inserita bene e senza impatto architettonico sull’ambiente), riaperta e riaffidata a nuova gestione dopo anni di abbandono. Era ora! La zona è affascinante e selvaggia, è una fortuna poterne fruire avendo a disposizione un posto di aggregazione, di ristoro, un solarium e, per chi desidera, anche camere in cui poter pernottare. Non solo: periodicamente vi si organizzano eventi enogastronomici o cultural-naturalistici che possano attrarre i turisti e invogliarli a ritornare (nella promozione del territorio è, in fondo, a questo aspetto che si dovrebbe pensare).
Per quanto mi riguarda, il vero gioiello è la passerella in legno che, partendo dall’edificio, si inoltra nel canneto (da cui, appunto, il nome “Canèo”) che occlude la vista fino alla vorticosa sorpresa finale: la foce del fiume Isonzo che passa di lì con foga e forte carattere! Nel mio giorno di visita, per di più, le acque sono limacciose e il loro colore rimanda ancora una volta il pensiero alle violente intemperie che han tormentato alcune Comunità del nostro Stivale.
Per un bel po’ lo sguardo rimane come intrappolato tra quei vortici liquidi che travolgono e non danno tregua. A poco a poco, lo scenario schiumoso lascia spazio alla percezione di un panorama in secondo piano, oltre le lingue rabbiose del fiume. Sagomine bianche sulla quella terraferma che deduco essere una punta della già citata isola della Cona. Guardo meglio: non sono uccelli – peraltro famosi da queste parti così frequentate come punto di appoggio di molte specie migranti – ma…cavallini! I bei cavallini della Camargue, membri anch’essi del patrimonio faunistico della riserva naturale! Uno qua, uno là, a collo piegato brucano l’erba; l’impeto ancora inesausto dell’Isonzo sembra non turbarli granchè. La Vita va avanti, sembrano dire; finchè c’è forza per stare in piedi ( o sulle zampe, dipende!) i giochi sono sempre aperti!
I canneti e le piante di laguna, alte e a pennacchio, si piegano ritmicamente e all’unisono al vento, quasi salutando con un inchino il Visitatore che indugia ancora al loro cospetto.