La balena dal dorso boscoso pare non accorgersi neppure che un drappello di camminatori le sta passando accanto; di lei vediamo solo le terga e, almeno per stavolta, un viaggio enterico nelle sue viscere ce lo risparmiamo. Breve sospiro di sollievo, poi via lesti. La stradina continua impercettibilmente a puntare in alto e offre dolci anse al nostro andare. Distogliendo lo sguardo dal serafico Tilimènt, innanzi a noi appare, non troppo lontano, un troneggiante dentone di roccia. Si stacca deciso dal resto del rilievo e, a prima vista, pare un masso erratico con gran voglia di continuare il suo percorso verso valle. Invece no! Si tratta di una costola stessa del monte, così netta perché separata dal resto del corpo roccioso da una ferita verticale, cioè una faglia. Quando c’è un segno di debolezza, è lì che il morbo attecchisce più facilmente, si sa. Idem per la innocua gocciolina d’acqua che, giorno dopo giorno, decisa e imperturbabile, scava con le sue piccole mani di velluto e allarga il divario fra la costola e il blocco principale. Ecco allora che dalla separazione si staglia il Clap da l’Agnel. Questo sperone di roccia racconta la sua antica funzione: faceva da “giro di boa” e segnava, di lì a poco, l’aprirsi dei pascoli. Rimaniamo straniti alla prospettiva di vederci davanti dei bei prati verdi, dato che siamo circondati da un paesaggio piuttosto arido, impervio e poco gustoso per il bestiame (se si eccettua qualche caprino dallo stomaco forte che ama masticare amare radici e quattro ciuffi di erbaccia spinosa!). Eppure…cari noi, è meglio se stiam zitti e umili di fronte alla sorpresa che Madre Natura sa fare nell’arco di pochi passi! Manco a dirlo, mentre ancora pensiamo alle greggi del passato e a quelle di plastica dell’imminente presepe domestico, ci ritroviamo subito su un ampio palco verdeggiante. Sembra davvero di calpestare la scena di un teatro, con la prima e seconda galleria pietrificate in attesa paziente e la platea vestita chic che rumoreggia. Ci troviamo sulla Sella Sant’Agnese, un’ampia e affascinante distesa prativa con l’erba tagliata e pettinata amorevolmente dagli autoctoni e qualche grosso sasso qua e là rotolato, come a far da punto luce, dato il suo biancore. Nel mezzo della piana sboccia, immancabile, la duecentesca chiesetta intitolata alla medesima santa. L’edificio è stato ricostruito con dedizione e precisione dopo il Sisma. A meno di un metro da terra, una sottile fila rossa di innesti di terracotta interrompe discretamente l’ordinata disposizione della pietra squadrata e argentea: quello è il segno della caduta, di cosa l’Orcolat bavoso aveva lasciato dopo aver calpestato, impietoso, Uomini e Cose. Neppur ci accorgiamo che, per un momento, tutti quanti ci fermiamo in silenzio e pensiamo, inevitabilmente, alla fragilità del nostro stare sulla Terra. Per fortuna, in breve veniamo riproiettati in una dimensione più allegra e festosa dal passare di tanti signori e signore di ogni età che, cartellino d’iscrizione sventolante al collo, corrono o camminano di buon passo. La marcialonga annuale è, infatti, in pieno svolgimento; i partecipanti in cui ci imbattiamo salutano con un bel mandi, la faccia rossa accaldata e quella particolare leggerezza mentale che solo lo sport sa dare. Diciamocela tutta: sono stati da poco confortati anche nel fisico da bevande calde e zuccherine disponibili nel gazebo allestito sotto il porticato della severa chiesetta di Sant’Agnese (patrona, oggi, dei cjaminadôrs!).
Alzando gli occhi verso la mont, ci accorgiamo che, al posto della consueta e marcata inclinazione diagonale di corrugamento degli strati rocciosi, qui la montagna si arriccia e le sue rughe assumono un andamento ondulato; dietro la chiesa, addirittura, si piegano a fisarmonica formando una sorta di grande ventaglio (detto, appunto, Ventaglio di Sant’Agnese, quasi a riparo del piccolo edificio). Un tempo – alcune rovine lo testimoniano – accanto alla chiesa sorgevano altre costruzioni abitate da religiose e adibite anche, all’occorrenza, a dar ospitalità ai viandanti.
Un pannello esplicativo piantato nei paraggi racconta un altro motivo che dà notorietà al luogo: qui vennero girate scene de “La grande guerra”, film di Monicelli che tutti abbiamo sicuramente visto (provveda subito, chi è in difetto!).
Insomma: questa sella ne ha di storie da raccontare ma noi, pellegrini più o meno laici degli anni Tremila, abbiamo il piede che nol po’ sta fêr. Così proseguiamo il cammino, immaginandoci – non a torto – che troveremo, biel lant, altre appaganti sorprese.