Candidato a cinque premi Oscar tra cui miglior film arriva nelle sale Green Book, commedia drammatica diretta da Peter Farrelly e interpretata da Viggo Mortensen e Mahershala Ali.
New York, 1962. Tony Vallelonga, detto Tony Lip, dopo la chiusura del club in cui faceva il buttafuori è in cerca di una nuova occupazione. Un po’ malvolentieri accetta così di lavorare come autista per il pianista afroamericano Don Shirley accompagnandolo in un tour di concerti nel sud degli Stati Uniti, dove l’odio razziale è ancora una tangibile realtà. Fra situazioni spiacevoli e altre molto divertenti, la storia si sviluppa nel modo più lineare possibile, facendo emergere pregiudizi e coraggio, conflitti e amore.
Green Book è così familiare, così classico, nei toni e nella struttura, che mi ha ricordato il cinema americano di una volta, quello che cattura dalla prima all’ultima battuta, quello che non stanca mai. Guardandolo ho sentito un’emozione che ultimamente iniziava a sfuggirmi, una gioia mista a paura che mi ha fatto stare bene in un modo difficile da spiegare. Come quando sei felice e ti accorgi di esserlo, una cosa rara.
Credo che sia questo il potere del cinema e in generale di ogni forma d’arte: provocare un bagliore, una luce, un’epifania. Qualcosa a cui aggrapparsi, qualcosa che aiuta a comprendere la propria vita e quella degli altri, qualcosa di cui fare tesoro. E Green Book, nella sua disarmante semplicità, questo potere ce l’ha eccome.