Quella della lavorazione della seta è un’arte antichissima: un’occhiata a Wikipedia e scopriamo che essa era conosciuta in Cina, dove è nata, già nel 3000 a.C. Se poi vogliamo approfondire le nostre conoscenze, basta consultare quel monumento documentale che è l’Enciclopedia Treccani, che al prodotto dedica quasi 30 pagine, e ci imbattiamo in un mondo multiforme e articolatissimo, fatto di agricoltura, allevamento, industria, commercio, scienza, arte, moda e molto altro.
Ad essere banali la seta non è altro che la bava solidificata che un bruco di origine asiatica, detto appunto baco da seta, produce per costruire attorno al suo corpo il bozzolo in cui effettuerà la mutazione in farfalla. Da tempo immemore, come si è visto, l’uomo ha imparato ad allevare l’animaletto e a lavorare il prodotto del suo sforzo, intrecciandolo in modo da ottenere un eccellente filato, capace di dare un tessuto tra i più preziosi.
Intorno a questa pratica, diffusasi dal suo continente d’origine in tutto il resto del mondo e in Europa in particolare, si è costruita nei secoli un’industria tra le più ricche della storia, capace di segnare l’economia di intere regioni, tra cui il nostro Friuli, che fino alla metà del secolo scorso fu un importante produttore di bachi e di filo.
Una pratica, quella serica, capace di segnare anche il nostro paesaggio regionale. Se dei vecchi stabilimenti filandieri rimane ben poco – a Dignano se ne può vedere uno dei pochi ancora in piedi, anche se in stato di grave abbandono – basta una salutare camminata nelle nostre belle campagne per imbatterci in un vero e proprio documento storico vegetale: il gelso.
Per i poco pratici di allevamento di cavalieri, così venivano popolarmente chiamati i bachi, va detto che il simpatico lepidottero si nutre esclusivamente delle foglie di questa pianta, originaria come lui dell’Asia, che per questo motivo ha avuto una notevole fortuna agricola, diventando tipica delle nostre terre.
Quando, dunque, ci soffermiamo a guardare qualche vecchio filare di gelsi, ricordiamoci che stiamo osservando un albero che non sarebbe dei queste parti e che è arrivato qui grazie a un piccoletto affamato.
Articolo di
Alberto Guerra