Mentre scrivo quest’articolo, il mondo intero (e il nostro Paese in particolare) sta vivendo giorni difficili, ormai da oltre un mese è scoppiata una pandemia e non si sente parlare d’altro, il Nuovo Coronavirus la fa da padrone e l’unico modo per sconfiggerlo sembra essere quello di rimanere in casa. Sebbene io in condizioni normali non sia una patita della vita mondana, in questo frangente stare tra le mura domestiche mi pesa come non mai, devo per forza cercare qualche distrazione, altrimenti rischio di impazzire.
Ecco perché qualche giorno fa ho deciso di trascorrere un paio d’ore guardando un film in streaming; tra le molteplici possibilità offerte dal web ho scelto “Ogni tuo respiro”, una produzione inglese del 2017 ispirata alla biografia di Robin Cavendish, un intermediario nel commercio del tè che a soli ventotto anni, mentre si trova in Kenya per lavoro, viene colpito da poliomielite e rimane paralizzato dal collo in giù.
Dopo il ricovero d’urgenza e la diagnosi, i medici gli danno al massimo tre mesi di vita ma lui, che all’epoca sta per diventare padre, non si arrende: dopo il primo anno vissuto in ospedale con momenti di grande sconforto, grazie alla sua forza di volontà, all’amore incondizionato della moglie Diana e al prezioso sostegno di alcuni amici sinceri, esce da quella che per lui è una prigione, torna in Inghilterra e lotta ogni giorno per condurre un’esistenza dignitosa; un amico ingegnere realizza per lui una sedia a rotelle dotata di respiratore, che negli Anni Sessanta non si era ancora mai vista, così Cavendish può finalmente ricominciare a uscire di casa e addirittura a viaggiare.
Raggiunto questo livello di “autonomia”, egli potrebbe semplicemente bearsene e vivere tranquillo insieme ai suoi cari, invece no: nei trentasei anni vissuti da disabile grave, non smette mai di adoperarsi per i diritti di coloro che si trovano in condizioni simili alle sue, perché anche loro possano beneficiare di ausili che migliorano notevolmente la qualità della vita e restituiscono almeno in parte la libertà.
Robin Cavendish decide di porre fine alla sua battaglia quotidiana nell’estate del 1994, dopo essersi reso conto già da qualche tempo che il suo fisico è ormai troppo debilitato per continuare a combattere; in accordo con la moglie Diana e il figlio Jonathan (che oggi è un produttore cinematografico e ha fortemente voluto che questa storia diventasse un film) organizza qualche giorno prima una festa d’addio, affinché tutti coloro che gli hanno voluto bene possano salutarlo, quindi l’8 agosto chiede a un amico medico di staccare la spina del respiratore che lo tiene in vita.
Sebbene l’epilogo possa far pensare il contrario e alimentare un dibattito già molto acceso, quello sulla fine vita e sul diritto di ogni essere umano ad autodeterminarsi, ritengo che questa vicenda costituisca un bell’esempio di disabilità positiva e propositiva, ragione per cui ho scelto di dedicarle uno spazio nella mia rubrica.
Anzi, pur non condividendola, oserei dire che la decisione di Robin Cavendish di morire quando ha ancora le sembianze di una persona, prima di diventare una larva, è perfettamente in linea con il suo desiderio di trasmettere un messaggio positivo e di far capire che un disabile, per quanto grave, rimane sempre una persona, dall’inizio alla fine del suo cammino terreno.
A prescindere dal finale, analizziamo gli elementi che rendono il protagonista principale di “Ogni tuo respiro” una fonte di ispirazione per tutti coloro che vivono in condizioni analoghe, o per coloro che li assistono. Esattamente come per ogni altra persona, anche in questo caso il carattere (esistente già prima della disabilità, ma forse temprato da essa) gioca un ruolo fondamentale: il carisma fa sì che Cavendish sia circondato da amici sinceri che si fidano di lui e credono nei suoi progetti, quindi sono sempre disposti ad aiutarlo a realizzarli, superando insieme a lui le difficoltà che di volta si presentano; inoltre gli permette anche di “attrarre” persone nuove e ottenere molti consensi. La grinta e la determinazione, altri tratti salienti del suo carattere, lo spingono poi a prefissarsi degli obbiettivi e a lottare con tutte le sue forze per raggiungerli, alzando sempre un po’ di più l’asticella; l’ironia e l’autoironia gli permettono di vedere il bicchiere mezzo pieno piuttosto che mezzo vuoto, di sorridere alla vita, comunque degna di essere vissuta; infine la generosità e l’abnegazione che lo contraddistinguono lo inducono a mettersi a disposizione della collettività (in particolare dei disabili) con le conoscenze e l’esperienza accumulata “sul campo” nel corso degli anni, per cercare di migliorare l’esistenza di tutti, non solo la propria.
È superfluo ricordare che per Robin Cavendish non sarebbe stato possibile vivere senza l’amore, soprattutto quello “da e per” la sua famiglia, ovvero l’amore incondizionato con il quale la moglie Diana e il figlio Jonathan si sono presi cura di lui ogni giorno per trentasei anni, ma anche quel sentimento altrettanto forte con il quale egli ha ricambiato i loro sacrifici e le loro attenzioni, dedicando loro la fatica di ogni respiro.
Il terzo elemento che a mio avviso fa dell’inglese Robin Cavendish un “caso” va ricercato nel suo essere un pioniere: all’inizio degli Anni Sessanta infatti, nessun uomo tenuto in vita da un respiratore artificiale osa immaginare di poter tornare tra le mura domestiche, né tantomeno di alzarsi dal letto e uscire di casa; all’epoca si pensa che l’esistenza di questi sventurati (per dirla come si sarebbe detta allora…) debba concludersi all’interno di un polmone d’acciaio, ovviamente in ospedale e per giunta nel più breve tempo possibile. Invece la famiglia Cavendish, con una scelta a dir poco coraggiosa (forse anche incosciente e temeraria, comunque senz’altro azzeccata!), cambia per la prima volta la prospettiva, assumendosi l’onere, che soltanto in seguito diventerà anche l’onore, di aprire una nuova strada, di rendere la disabilità un’opportunità.
L’opportunità è appunto quella di mettersi al servizio degli altri, sia in veste di “cavia” per testare nuovi ausili che migliorano la qualità della vita e l’autonomia dei disabili gravi (in particolare dei “responauts”, ovvero di coloro che dipendono quotidianamente da un respiratore artificiale), sia in veste di difensore dei diritti degli stessi. In quest’ottica, la disabilità grave non rappresenta un limite, bensì un lasciapassare che dà accesso a un nuovo mondo, un universo parallelo che spesso è temuto proprio perché sconosciuto, ma che in realtà nasconde al suo interno una grande ricchezza, capace di trasformare irreversibilmente il cuore di coloro che hanno l’ardire di scoprirla al di là di ogni pregiudizio.
Tutti gli aspetti analizzati fin qui e forse anche altri che non ho considerato, conferiscono alla vita di Robin Cavendish (che usando un respiratore artificiale per ben trentasei anni stabilisce un primato a tutt’oggi imbattuto in Gran Bretagna) una dimensione quasi epica e la rendono senz’altro degna della sceneggiatura di un film; così nasce “Ogni tuo respiro”, una pellicola con la quale Jonathan Cavendish vuole offrire un tributo alla memoria del padre, che nonostante la sua condizione (o forse proprio grazie ad essa) ha sempre rappresentato per lui un modello da seguire.
Dopo aver visto questo film, che consiglio caldamente a tutti, mi chiedo se anche noi sapremo reagire al Nuovo Coronavirus, che ormai da oltre un mese sta imperversando in Italia e nel mondo, con la stessa forza, con lo stesso attaccamento alla vita e con lo stesso spirito di servizio con i quali nel lontano 1958 Robin Cavendish reagì alla poliomielite; è ancora troppo presto per dirlo, ma io spero veramente di sì!