Ovaro, Carnia, malga Pozôf. Mentre mi chiedo che fine farà l’economia della montagna furlana, mi compare davanti un pastore, armato di fisarmonica e di cappello a tesa bassa di panno verde scuro. Ha un bel volto colorito e l’espressione sorridente. Con la stessa scioltezza con cui regala una allegra melodia danzerina a noi avventori, poco dopo si mette a conversare di lavoro e affari, per poi sfrecciare a bordo del suo pick up (di quelli veri, da soma, direi!) per andare a dare un occhio alle bestie lasciate al pascolo.
Quel che attira la mia attenzione – oltre all’allegria e all’entusiasmo che sa trasmettere – è la giovane età del pastore: un ragazzo sui vent’anni, sano e forte e innamorato della sua montagna.
Ritrovo i suoi stessi occhi trasparenti e brillanti in quelli di una bella signora che mi siede accanto. Si tratta di sua nonna. Lo si capisce anche solo osservando il modo in cui lei lo guarda discutere con la gente, mentre racconta della vita che si fa tra questi pascoli. La signora mi dice che sì, lei avrebbe preferito che il nipote avesse continuato gli studi – magari in vista di una carriera meno segnata dalla fatica e dal sacrificio – poi, però, tra il rassegnato e l’orgoglioso, conclude considerando che la passione per la malga era emersa al ragazzo sin dalla sua età più tenera; si sa, un amore del genere, quando si manifesta, non ti molla, non c’è niente da fare. Forse la montagna trasmette una sorta di “mal d’Africa”, quella specie di attaccamento viscerale per la quale se sei lì, nel suo grembo, lei ti prende e ti sfianca con le sue richieste di cura e di prudenza e con le sue mai paghe esigenze, mentre quando le sei lontano ti senti fuori dal tuo elemento e boccheggi come un pesce sofferente. E’ una sorta di dipendenza del fisico – dei sensi, in particolare – e della mente. Cosa puoi fare, allora? Semplicemente ci torni.
Vengo distolta da queste riflessioni perché i modi garbati della signora al mio fianco mi invogliano a proseguire la conversazione. Con quanto piacere mi racconta di sé e delle sue esperienze discorrendo in un vero dialetto carnico e accorgendosi che… la posso capire! A volte qualche dubbio la sfiora – probabilmente la mia faccia le sembra foresta o troppo cittadina – poi, però, rassicurata, continua la narrazione. Il suo racconto è lucido e quasi mai in lode dei bei tempi andati, come molte persone con qualche decade in più sulla schiena fanno, ricordando la loro energia e il vigore della giovinezza. La signora sì, mi parla di quando aveva trent’anni e i figli piccoli e andava con il marito a fare lunghe camminate fino al Rifugio Marinelli e oltre. Mi racconta, però, anche dei duri anni della guerra e dei tedeschi. Parla degli stenti patiti, del padre e della madre – qui gli occhi le si velano – e della fame. Fame, fame tale da non aver mai dimenticato il giorno in cui lei, bambina, mentre attraversava il paese ( su in Carnia) sommerso da cavalloni di neve e sorvegliato a vista dai todescs, aveva scorto a terra una briciola, un pezzetto di cartufula rustida, e non aveva osato chinarsi e raccoglierlo, né all’andata né al ritorno, perché la paura di una pallottola nella schiena aveva vinto la battaglia contro i morsi del vuoto nello stomaco. Per quanti anni avrebbe, poi, sognato, quel pezzettino di cibo che avrebbe potuto darle un momentaneo sollievo!
I racconti proseguono ed io la seguo con attenzione, pur restandomi impresso a fuoco quel singolo episodio che la fa esclamare che la crisi, quella profonda che lascia senza sostentamento, lei l’ha conosciuta da vicino in epoche passate per il calendario ma presenti più che mai nella memoria.