Cara Estate, così bella e perduta! Ci arrostivi senza tregua e ci fornivi sempre un motivo per lagnarci: ce cjalt, no si riva a durmî, si fâs fatura a lâ indenant e così via.
Avevamo una voglia matta di scappare sulle alte cime a cercar refrigerio ma avremmo dovuto frequentare un corso rapido per rocciatori per aver speranza di trovare solo a quote da aquila un bicchiere di aria (non biscottata) da respirare!
Eppur tentavamo. Raccoglievamo quei pochi frammenti di forze domenicali e ci regalavamo una uscita tra i monti. Pazienza se non eravamo a portata di aquila e se, ben sopra i mille metri di altitudine, zaino e schiena diventavano una cosa sola, per di più allo stato fluido. Pazienza se lassù il sole sembrava più insolente e pizzicava ogni lembo di pelle esposta o nascosta.
Consola, ora, ripercorrere questi recenti ricordi, mentre fuori dalla finestra soffia una bora da fâ colâ il bèc, robis nancja se o fòssin a Trièst. La calura di quella giornata estiva, a ricondurla alla mente, si fa adesso carezza; l’azzurro inguardabile e violento del cielo si addolcisce in un allegro pastello morbido.
Tu chiamala, se vuoi, nostalgia ma, suvvia!, sii sincero: in cuor tuo, già pregusti, se il Buon Dio permette, le piccole – grandi esplorazioni che farai attraverso la tavolozza dell’autunno e nella severa bellezza dell’inverno. Vedi? Solo così sei libero di metter mano ai ricordi con cuor leggero!
E con grande piacere, per giunta.
Sono proprio queste le sensazioni, infatti, che a vegnin fûr dall’album delle fotografie insieme con le immagini catturate nel mosaico dei pixel. Trattasi di puro piacere per l’escursione compiuta verso Malga Coot, nell’ombelico del Parco delle Prealpi Giulie.
Eravamo un bel gruppo, composito per età, provenienza e motivazioni. Valore aggiunto, questo, che facilita la conoscenza reciproca, lo scambio comunicativo, il mettere adùn saperi ed esperienze, nonché impressioni e punti di vista. La fortuna di avere Anna come guida ci faceva sentire come se fossimo condotti per mano, gradualmente, a scoprire con cautela e rispetto quello che poi sarebbe divenuto il mosaico della nostra uscita: la Val Resia vista dalle malghe, con tutto il suo patrimonio culturale e naturale.
Punto di partenza la classica sede del Parco, ovverosia quella di Prato di Resia. Da lì le auto ci portavano fino a San Giorgio, Coritis e oltre, dove poi sarebbero rimaste in polse, fedeli, ad attenderci di ritorno dal nostro percorso ad anello.
Detta così, facile. Quella domenica, però, la Val Resia era addobbata e festeggiava l’Arrotino, quasi un antenato mitico divenuto protettore e custode di una etnia. Si sa, l’arrotino era la figura più diffusa da quelle parti fino a non troppi decenni fa. Una emblematica carta dell’Europa affissa da qualche parte segnava con bandierine tutti i Paesi in cui i gùos si spingevano, cun chè di puartâ a cjasa il pan: Vi assicuriamo che è più semplice e immediato enumerare le zone non visitate da queste figure che non quelle di loro passaggio. Non scordiamo che il tutto avveniva a bordo di una bici che era loro mezzo di trasporto e strumento di lavoro.
Affila lame, ripara ombrelli, aggiusta forbici, pedala, pedala, pedala! Impedibile la visita al Museo omonimo per rendersi conto, almeno in parte, di dutis ches vìtis.
Oggetti, fotografie, bici, lame, scatole, aggeggi vari; poi…i violini. Sì, perché Val Resia è anche violino, musica ed espressione popolare, lingua e alfabeto anche per chi no saveva né lei né scrivi. Ed è parlata locale, particolarissima e degna di tutela; è folklore – specie nel carnevale – e tipicità dei frutti della terra, aglio in primis.
Provate solo ad immaginarvi quale entusiasmo pervadesse ogni angolo della valle in quella giornata di festa e di commemorazione.
Noi, però, miravamo all’acropoli, alle zone più alte, dove boschi e prati in salita conducono fino ai piedi del maestoso massiccio del Canin. Scusate se è poco!
Tempo qualche ora di marcia e la pace montana era nostra, con sommo gaudio.
Eravamo rapiti, anzi, catturati dallo scenario che ci si parava davanti. La montagna di roccia emanava calore e ci attirava come una calamita. I panorami sui piccoli paesi e borghi resiani deliziavano e ripagavano della calura patita lungo le salite.
Avanzi di malghe che incontravamo biel lant ci parlavano di un tempo in cui il pascolo non lasciava spazio al bosco perchè uomini instancabili cercavano di trarre di che vivere da una terra poco generosa di cibo per loro.
Tra i vansùns di malga una, in particolare, ci risucchiava come un acchiappasogni: guardate la foto qui allegata e provate, simbolicamente, ad attraversare il riquadro incandît rimasto in piedi in barba alle intemperie del luogo e, quasi, alla legge di caduta dei gravi.
Noi avevamo faticato non poco a schiodare gli occhi da quel “forse” rimasto in piedi. Vi infilavamo i bulbi curiosi attraverso, di una banda e di che atra, fino a smarrire la concezione del probabile “dentro” e “fuori”.
Il “forse architettonico” stava lì, si burlava delle nostre insicurezze, del nostro barcollare su eterne dicotomie irrisolvibili. Quale senso poteva sopravvivere a due posizioni che, in un passato ormai remoto, apparivano certe ma che ora il tempo aveva già ben sbriciolato? L’unica possibilità del nostro ondeggiare e barcamenarsi non appariva, alla fine, né un “entrare” né un “uscire” che, in quel contesto erano svuotati di significato. L’unica via era quella di…circumnavigare l’avanzo malghivo! Un approccio a trecentosessanta gradi era l’unico modo per non costringersi a due sole ottiche – per giunta entrambe nonsense – e superare l’impasse.
Acchiappasogni e acchiappa biel – lanti!