C’è un punto, in particolare, che ricordiamo con piacere e che, supponiamo, lo stesso Gadda riusciva ad apprezzare, pur nell’immane tragedia della guerra in atto. E’ il rio Koderiana, torrentello vivace e pittoresco in cui ci si imbatte, lasciata alle spalle Topolò, in direzione Sverinaz.
Lo scorso luglio, manco a dirlo, quell’acqua fresca e argentea ci pareva un miraggio, mentre noatris a clopàvin sot dal soreli bulint che nus dava jù cencia stufasi! Eppur era tutto miracolosamente vero: un posto dove trovare tregua, dove rigenerarci e recuperare un po’ di energia par pudê lâ indenant.
La stanchezza dovuta alle temperature straordinarie ci stava mordendo: lo ammettevamo in silenzio e con un po’ di pudore, dato che il nostro compagno di viaggio spirituale – il Tenente Gadda, appunto – ben altre ne aveva passate in nome della Patria.
Non ci riusciamo a capacitare ogni volta in cui riflettiamo su quanta resistenza dovevano avere – a scugnìvin vèla – le generazioni precedenti alle nostre: tante e tante volte abbiamo considerato il binomio indissolubile lavoro – fatica, lo spezzarsi le ossa per poter portare a casa i mezzi di sostentamento. Ci sembra una storia di chissà quanti secoli fa perché mentalmente ci rassicura e tranquillizza spostarla all’indietro all’infinito: non ce la facciamo proprio a concepire bimbi e anziani e donne a consumarsi nei campi, nei boschi, nelle filande, nelle fabbriche…o uomini vigorosi diventare vecchi troppo in fretta sotto il peso del sacrificio. Come potremmo, allora, mandar giù la vita in trincea, tra il filo spinato, al fronte, ballando tra fango, freddo, fame e pidocchi, tra paura, proiettili e bombe in una febbricitante tarantella di distruzione?
(Guerra di cento anni fa, cosa vuoi che sia. Roba che trovi sui libri di storia, spersonalizzata. Quasi un videogame su carta, dove i personaggi muoiono ma tra noi e loro un distacco psicologico e due mondi diversi, paralleli…con la differenza che i soldatini di pixel non esistono e non gemono, mentre quelli di carta avremmo potuto essere noi se il destino non ci avesse fatto nascere in tempi più fortunati).
Gadda e i suoi – cioè noi – si riposano, ora, sulle rive del Koderiana, benedicendo quell’acqua che leva via un po’ la sete e che rigenera le caviglie e i polsi. Il verde ci circonda e ci abbraccia teneramente, quasi nascondendoci da sguardi minacciosi e malevolenti. Siamo in un punto basso; il letto del torrentello è costellato da pietre piuttosto voluminose che creano un bel gioco plastico di pieni e vuoti e che ci offrono dei sedili naturali su cui appoggiarci, sdraiarci, trovare uno spazio tutto nostro e saldo.
Come ogni volta in cui ci capita di appollaiarci su un sasso di fiume, veniamo inizialmente assordati dal fragore dell’acqua che, incessante, copre ogni nostro tentativo di favella. Anche qui accade la stessa cosa, pur non essendoci un fiume imperioso bensì solo un acerbo roiello. Stiamo zitti, allora, o stin in scolta. Lasciamo che l’ambiente parli a noi, per una volta, e non viceversa.
Ci sentiamo invitare a fermarci, a guardarci intorno, a non passare oltre con superficialità e badando solo alla meta finale.
Tra l’inizio e la fine di ogni progetto, di ogni cammino, tra il nassi e il murî c’è…la Vita: sarebbe da sciocchi guardare solo il punto di arrivo, perdendosi il vero spettacolo che è il “durante”!
Cogliamo il suggerimento, nus convèn.
Ci guardiamo, innanzitutto, l’un l’altro. Quei volti di compagni di viaggio pressoché sconosciuti solo qualche ora prima, adesso sono più familiari e noti; ci par quasi di averli incontrati molte volte anche in passato, anche se non sapremmo dire dove o in quali occasioni. La stanchezza e il rossore sui nostri visi ci accomunano e ci affratellano. L’esperienza convidisa crea, in sé, fratellanza. Non si spiegherebbe, altrimenti, la maggior facilità con cui si copa la diffidenza e ci si sorride o ci si scambia una battuta, una parola, un biscotto che nus tiri su di spesa!
Cjalasi in musa al zova. Viodi che o sin ducj compagns nus juda a tirâ indenant.
Fatto questo – e non è poco – o cjalìn ator. Una deliziosa casetta ristrutturata di recente era lì già da un pezzo e nus tigniva a mens ma noi non ce ne eravamo accorti! No, non è proprio una casetta…è un mulino, con tanto di mola di pietra appoggiata al muro. Il Mulino Tebogatin, come ci specifica la nostra esperta guida. Pietra e legno, la porticina minuscola che noi, superuomini del Terzo Millennio che ben mangiamo e ben beviamo – faremmo davvero fatica ad attraversare!
Ora che il nostro sguardo è di nuovo lucido e abbiamo svaporato un po’ di caligo e di strachetât, ci rendiamo finalmente conto dell’angolino di paradiso terrestre in cui siamo arrivati: una Natura accogliente, il mulino che è ancora più da fiaba rispetto a quello Bianco delle pubblicità, bei prati in pendenza e l’arietta fresca che sa di acqua dolce.
Ci ripromettiamo di raccontare di chest puest ad amici e conoscenti, in modo che tanti altri possano godere della sua bellezza e in modo che chel cjantonut incjantât si riempia spesso di gente pacifica che, pur temporaneamente, lo abiti e lo animi con la propria presenza.