E’ vero, sulla Uate c’è qualche video che vi consente la visita virtuale degli interni della Biela Siora ma mai – vi assicuriamo, mai! – proverete lo stesso impatto che sentite addosso quando mettete il vostro piede naturale in centrale.
Grande, imponente, maestosa e ordinatissima, linda e rigorosa (se non fosse per una goccia di pioggia che penetra dal tetto); allo stesso tempo, così armoniosa e compatta da prestarsi facilmente ad un abbraccio con un solo sguardo.
Entri, oltrepassi l’anticamera, poi varchi la soglia del grande salone centrale. Eccola, è lì, tutta intera e dichiarata. Il tuo sguardo coglie l’insieme e si dice: “beh, ce l’ho fatta a catturarla tutta con un click, pensavo che l’operazione fosse più difficile!”.
Non cantar vittoria, subito la cogli e subito ti perdi: lei ti prende, ti tira dentro, ti chiama con mille voci dai suoi mille cantoni e tu…non sai dove guardare, tant’è che vai a rischio di strabismo!
Una sirena dalle curve sinuose, ecco cos’è questa Biela Siora!
Al centro due filari ordinati di turbine Francis nere, tonde e lucide, così ben pulite che un – ragnetto – uno non lo vedi neppure nel più recondito degli anfratti. Le accompagnano riverenti alternatori, pieni di cortesi attenzioni per loro.
Eleganti manopole stile retrò e quadranti segnavalori sono a corredo, nonché una serie numerosa di altri bulloni, leve, comandi e regolatori in tinta, mimetizzati nel corpo macchina, in modo da creare un tutt’uno omogeneo, se visto dall’esterno.
In fondo alla sala una gradinata doppia (a sinistra e a destra) porta ad un piano rialzato, la sala comandi. Il posto del capitano, come su una nave! Da lì si gode la veduta dall’alto. Impedibile.
Dopo aver ammirato il panorama, ci si lascia catturare dall’infinita varietà di bottoni, orologi, leve, pomelli posti su cruscotti e piastre.
Particolari dorati, scritte di stato in lingua italiana! Scordatevi per un attimo il solito, laconico “on – off” e trovate, al suo posto, un eufonico e morbido “acceso – spento”, o simile.
Dietro alla parola “acceso” scritta su un comando sapete che c’è una vita???? Anzi, tante vite, tante generazioni, un’intera economia e un Paese che, ormai, è solo su cartolina, nei musei.
Tant’è che in un museo, in effetti, ci troviamo.
“Acceso”, in italiano, può significare “fatto qui, prodotto qui, pensato, progettato, partorito qui” o, almeno, “utilizzato e messo all’opera qui”.
Significa pure che, nel caso in cui suddetto termine con suo relativo supporto materiale debbano partire per l’estero, l’operatore di non italica favella si ritroverà a dover imparare il vocabolo italiano nella sua pronuncia e nel suo significato e ad accogliere quel termine nel suo universo di lavoro e di comunicazione.
Una minuda peraulùta da tre sillabe non pesa nulla, non occupa spazio ma racconta una Italia che produceva e che stava cercando di uscire dalla miseria e dal buio.
In primis, il buio di Venezia, infranto nella primavera del 1905 proprio grazie alla prima energia prodotta dalla centrale Pitter e mandata a rischiarare la piazza del possente Leone.
Due guerre mondiali avrebbero, poi, portato ben altro genere di oscurità ma la centrale continuava a lavorare, ininterrotta, mantenendo la sua bellezza fino al 1988. Neppure l’Orcolàt riuscì – nel 1976 – a incanutirla.
Ed è anche grazie agli ex dipendenti della Pitter (oltre che agli operatori dell’Immaginario Scientifico) che, ora, noi possiamo conoscerla, visitarla, togliere dall’oblio un tassello importantissimo della storia locale. Veniamo a scoprire dell’appassionata intraprendenza dell’Ingegner Zenari e dell’Ingegner Pitter nel condurre la direzione dell’opera; dell’intuizione fine – ottocentesca di Zenari di sfruttare le acque del torrente Cellina, anche in virtù della conformazione della sua stretta forra; dell’occasione creatasi a partire dal progetto per la costruzione di una strada che collegasse i paesi della valle del Cellina alla pianura, togliendoli così da un antico isolamento.
La Pitter era parte di un sistema (attualmente ancora in sviluppo) inizialmente costituito da tre centrali (la Pitter a Malnisio, quella a Giais e quella nel Partidor).
Per realizzare il complesso insieme di opere (una diga, un lungo canale adduttore scavato nella cruda roccia, canali di scarico, ponti, arcate di sostegno, gallerie etc. etc.) fu necessario impiegare uomini e feminis! come formiche, numerosi, numerosissimi, perché più si è – meglio è. Forza di braccia, pala e pìc e minuscole carriolette su cui caricare il materiale asportato e portarlo via a suon di muscoli e nervo. Una fatura di che mai.
Guardate le foto in gigantografia, sulla parete di destra, appena entrate nel salone della centrale; vedete quei puntini con tanti occhi e tante teste? Eccoli, doimîl. O forse più. Duemila minatori, scalpellini, portatrici, carpentieri, scarriolanti a lavorare imperterriti per la grande centrale. Cinque anni di calli alle mani, polvere nelle nari e schiena piegata.
Poi luce fu.
E fu energia per le industrie che stavano fiorendo in Veneto e nel Friuli. D’accordo, oggi diremmo che “c’è grande impatto ambientale” e avremmo anteposto alla costruzione della centrale una serie di referendum, baruffe, scioperi, proteste pro e contro e “forse non va bene – ma anche sì, va bene”.
Allora era il Millenovecento. Prima c’era la candela di cera e poco altro, qui nei dintorni.
Oggi c’è il troppo che stroppia, c’è il tanto in abbandono e la gente che passa davanti alla fabbrica dove lavorava e viene stretta da un magone, quasi passasse davanti alla lapide di un caro estinto.
E si continua a barufâ sull’opportunità o meno di costruire altre fabbriche, altri impianti, altre strade. Si barùfa anche durante la costruzione e pure al termine – sempre che l’opera venga ultimata.
Magari si barùfa – indelicatamente – proprio accanto a quelle povere fabbriche, strade, impianti dimessi e attanagliati dalle erbacce.
Alla fine qualcuno l’avrà vinta.
Ma ci sarà una gran festa con gran apertura di porte e tanti lavoratori pronti ad entrare e cominciare una nuova carriera lavorativa?