Se il titolo Vi sembra un po’ crudo, per stavolta Vi chiediamo la gentilezza di ingurgitarlo e digerirlo così com’è. Già che ci siete, armateVi di pazienza e di un tè, per arrivare fino alla fine. Perché Redona non abbiamo proprio cuore per dividerla in due puntate.
Perché la realtà che mostra è immediata, da cogliere in un’unica soluzione: bianca, pura e dilavata, senza trucchi e belletti.
Facciamo un passo indietro. Da Ferragosto in qua tra le grandi e affollate maglie della rete digitale una immagine, in particolare, colpiva molti internauti, così come parecchi ne sono stati catturati guardandola sulla carta stampata.
Ci riferiamo alla borgata di Movada, messa in ammollo – dagli anni Cinquanta del Secolo Breve – in quello che è denominato “lago di Redona” o “lago dei Tramonti”, invaso artificiale facente parte di un articolato sistema finalizzato, manco a dirlo, alla produzione di energia idroelettrica. Venticinquemila metri cubi di capacità, cinquanta e rotti metri di altezza dell’arco di sbarramento, quota trecento e passa metri sul livello del mare. Anno Domini 1952, cantiere aperto nel Quarantasette.
E luce fu.
Siamo di là dall’aga, nell’asperrima e fascinosa Val Tramontina. Torrente Meduna. Anzi, torrente Meduna e gli invasi artificiali di Redona, Ca’ Selva e del Ciul….che, solo a pronunciare questi nomi, si sente filo di ferro tra i denti. E il ponte Racli, poi? Cosa vi aspettereste da un ponte che si chiama “racli”??? La erre fa venire un brivido, il suono della parola detta per intero è una sferzata nei lombi.
Lì la vita stessa era “racli”, se ci si guarda attorno. Posti di una bellezza puntuta e irresistibile, come una sirena. Per secoli i valligiani avevano abitato quei territori, sapendo trarre da essi sostentamento. Prati artificiali ricavati per il pascolo, anche a quote alte; sentieri addirittura scavati nella roccia per il passaggio dei bovini – più piccoli e atletici di quelli che attualmente siamo abituati a vedere – e caprini, specialmente della estinta pecora grigia tramontina e del suo famoso filato, instancabilmente tessuto in ogni casa.; calcinaie e carbonaie; fazzoletti di terra estorti al selvatico e trasformati con fatica in mini orti per la coltivazione di ortaggi e cereali che ora nessuno ricorda. Un ambiente povero di risorse riusciva a tener viva un’intera vallata che,a poco a poco, si infittiva di abitanti e si apriva ai commerci con Venezia e con il nord Europa. A parte gli abitati dei tre Tramonti (Vìla), spuntavano ovunque borghi e borgate in luoghi che, oggi, ci sembrano fuori dal mondo e isolati assai. Ma era dura tirare avanti, le esigenze della popolazione crescevano e si udiva che altrove si podeva stâ mior. Toccava emigrare. Andare tal forèst o, per lo meno, scendere in pianura, dove mettersi a paga da qualche tenutario e smetterla, una buona volta, di tirare quella benedetta cinghia. A fine Ottocento già molti Tramontini dovettero volgere le spalle alla loro valle e andare via definitivamente, cercando miglior sorte e consolandosi col fatto che il prezzo dell’abbandono potesse venir controbilanciato da minor miseria.
Figuriamoci nel secondo dopoguerra, quando si cominciava ad intuire forte la possibilità di una vita davvero migliore.
Via, via ancora da Tramonti di Sopra, di Sotto, di Mezzo, dalle loro frazioni seminate nella vallata e nell’ampio pianoro che ora è coperto da acqua di Meduna imprigionato. E se ti davano cuatri carantàns perché tu liberassi la casa oggetto di esproprio, avanti ancora più spedito chè, tanto, nol è tant di scielgi.
A Movada, ma anche in altre borgate come Redona vecchia o Flour, accadde proprio questo. Mentre molti Tramontini continuavano a far fagotto, il progresso e l’economia nuova (ogni epoca ha una sua “new economy”) chiedevano spazio d’azione.
Quelle borgate lì non ci possono più stare, sono antieconomiche!
In nome dell’energia elettrica questo ed altro. Ammettiamolo, no? E’ inconcepibile la vita umana senza una presa di corrente, oramai. Neppure sappiamo più lavarci i denti “a mano”, al giorno d’oggi. Figurìnsi par chei timps, quanto entusiasmo e quante speranze poteva accendere – in voluto doppio senso – nell’opinione pubblica l’idea che la valle diventasse un importante e strategico centro di produzione di energia, magari volando già col pensiero alla ricostruzione post – bellica e al potenziarsi dell’industria.
Pazienza se qualcuno in più doveva sloggiare. Il virulento morbo furlano (ma non solo furlano, ne siamo convinti) di considerare la casa come una creatura vivente, un membro di famiglia, un semidio pagano da non tradire doveva essere annientato.
Noi contemporanei facciamo sovente facile retorica, in situazioni simboliche come quella di Movada, sull’oltraggio alla memoria e sul diniego dei diritti di civiltà e di identità culturale a danno dei piccoli borghi di montagna.
Noi, piccolo particolare, abbiamo la pansa plena e no nus mancjia nuia. La fame è solo una parolina corta corta che si sente nelle pubblicità progresso pro Terzo e Quarto Mondo.
Sglonfs di dut, il torpore di una lenta digestione ci toglie la lucidità per capire che sarà pur giunto il momento di consumare un po’ di calorie in eccesso e far qualcosa per recuperare parte di un patrimonio che dirocca e frana a vista. Non ci riferiamo certo alle bianche rovine che oggi sollecitano il nostro riflettere – sarebbe uno sforzo romantico ma anacronistico e illogico – quanto a quel sapere che deriva dall’abitare un territorio e che, per questo, è unico.
Il primo passo può proprio essere quello di andare a visitare i territori e di raccontarli, meglio ancora di stâ in scolta di chi ben li conosce e di fare da cassa di risonanza. Il “turismo a chilometri zero” ha nella sua essenza proprio questo: avvicinarsi senza troppe mediazioni al paesaggio e a chi lo vive. Le guide cartacee sono sovente scritte da autoctoni o da grandi e assidui frequentatori delle zone; le guide in carne ed ossa, parimenti, hanno spesso un aggancio locale (o anche emigrato da chissà quante generazioni, ma con radici affettive e la motivazione forte di scavare per vedere dove esse affondino) che dà le dritte.
Ci stupiamo se ci sentiamo così profondamente attratti dalle rovine bianche e nette di Movada che sbuca dal lago imperturbabile, nell’occasione di una estate asciutta. Ci vien quasi da commuoverci a guardare quei poveri muri con squarci – urla mute – al posto dei riquadri di porte e finestre. Il tetto, chissà, portato via dall’onda o dagli ultimi fuggiaschi che volevano ricostruirselo altrove, dulâ che e jera plui bondansia.
E quel cumulo di sassi levigatissimi, in parte? Forse franati di fresco, forse sono segni di cedimento e annientamento di quelle anime in pena che erano, un tempo, abitazioni e sicuri rifugi. Sarà davvero questa l’ultima occasione per vedere le architetture del passato riemergere nel presente? Una sorta di attrazione ipnotica ci impedisce, quasi, di distogliere lo sguardo da quelle sagome.
Ma Movada c’era anche un mese fa, un anno fa. Sommersa, ma c’era. Non vale il noto e ipocrita “occhio non vede…”. Movada e iera dinstès. Solo non faceva i conti con la nostra cecità e sordità. Ogni tanto i vecchi devono tornar fuori e cantarcele di santa ragione, altrimenti dimentichiamo troppo in fretta.
L’epifania delle case dal lago serve a farci diventare un po’ più maturi. Inutile rifugiarci nel sogno del passato mitizzato, schifare il progresso (noi, semifusione uomo – macchina, il cui motto è se non sei connesso sei morto) e lodare la vita del tempo che fu, percepita come più vera o sana o genuinamente fondata o cussì via.
Cerchiamo di farci ammaliare dai vuès di Movada per…guardare con maggior nitidezza il presente. Noi non possiamo cancellare proprio nulla: il passato è stato, ha prodotto la marmellata in cui siamo immersi. Non c’è diga, cemento, bomba o mina che tenga e che possa abbattere i templi della Storia. La loro sagoma simbolica è scritta nel presente del Mondo e da lì non la si toglie né per Diu né pai Sants!
Si sbricioleranno dolorosamente le case nel Redona, così come franeranno, lacerate e violentate, colonne e capitelli dei deserti mai troppo lontani che i tiggì quotidianamente ci mostrano (se ben guardate la foto, cari amici, noterete una strana e singolare somiglianza delle nostre protagoniste “spiaggiate” con quelle sagome abitative che si trovano nelle oasi delle cartoline).
Ma c’è un ma.
Per fortuna l’uomo non è così potente da riuscire a toglier di mezzo le pagine scritte dalle vite di generazioni su generazioni. Qualcosa si salverà, forse non le vestigia materiali (purtroppo) ma un patrimonio simbolico che – paradossalmente – verrà reso eterno dallo stesso intento di annichilirlo…