Entrare nella abitazione del Lascito Dal Dan è, davvero, come fare un tuffo nel passato. Ci sentiamo di affermare che qui, non altrove, si sente di attraversare a gjàmbar il muro degli anni e di tornare a un bel po’ di decadi fa.
Qui e non altrove, dicevamo, rapportando la nostra attuale sensazione così forte e intensa alle altre da noi vissute ogniqualvolta entravamo in una vecchia dimora del nostro amato Friuli Venezia Giulia. Solitamente, infatti, la casa padronale, la villa del conte o la tenuta di Tal dei Tali si offrono al visitatore sotto forma di casa – museo, di bed and breakfast, di villa per matrimoni ed eventi importanti o, data la radicata tradizione vitivinicola, come sede di prestigiose aziende del settore. In tutti questi casi la struttura in questione ha, giocoforza, subito ristrutturazioni, ritocchi, rimaneggiamenti, ammodernamenti, se non altro per adeguarla all’uso cultural – produttivo cui viene adibita.
Nel caso di Casa Dal Dan tutto questo non è (ancora) accaduto in maniera particolarmente appariscente. Avverranno, sperìn, opere di risanamento conservativo e di adattamento della struttura alla sua nuova vita, in base agli scopi cui essa è stata destinata; per ora è ancora possibile respirare appieno quell’aria antica, chel timp antìc scandito da un orologio, anzi, da una vecchia pendola che si è inclaudada e non ne vuol proprio sapere di rimettersi in moto.
Attraverserete la soglia e, vi assicuriamo, un fremito vi correrà sulla pelle: verrete catapultati all’indietro grazie ad una sinergia di odori, colori, giochi di luci e ombre che vi avvilupperanno come una cuviarta di lana della nonna, un po’ ruvida ma così vera nella sua fibra e così calda, specie dopo un po’ che l’avrete indosso.
Primo passo, tre scalini, forse, poi l’ingresso. In fondo a sinistra la vecchia scala che sta cercando con paziente dedizione di scrollarsi di dosso la vernice a smalto marroncino – gianduia; non vede l’ora di far vedere che è ancora giovane, che sotto la pittura del tempo le sue carni di legno sono ancora bianche, profumano (profumano, credeteci!) ancora di fibra vergine, quasi fossero ramo o tronco appena tagliato.
Non saliamo ancora ma alziamo istintivamente gli occhi e un piccolo vezzo dei paròns appare in alto, sul soffitto dell’ultimo piano visibile: una figura di bimbo, un puttino o simile, affrescato e tinto di tenui colori. Sembra uno squarcio di cielo primaverile, tutto quell’azzurrino porta un refolo di ottimismo anche al più cupo degli sguardi.
Aspettiamo, però, saliremo tra un po’. C’è tutto il piano terra da visitare, magari in fretta, ma non lasciamoci sfuggire l’occasione.
…e ci conosciamo, oramai! Sappiamo che sarà la cusìna a trattenerci a lungo, con tutto l’incommensurabile fascino che essa emana, nel segno più autentico del fogolâr furlan. C’è dut ce c’al coventa, in quella bella cucina: mobilio semplice, scarno, essenziale; la luce delle finestre che raccontano chi passa per strada e quale sarà il prossimo a chiedere ospitalità o a portare il proprio racconto; c’è lui, il fogolâr, con quella immensa cappa che sembra l’ingresso verso il Paese delle Meraviglie di Alice, dove la caduta qui diventa ascesa e le Meraviglie non sono fantasie o simboli di una prossima vita adulta bensì vite passate che, come tali, vanno raccolte e ascoltate da noi che siamo solo anellini susseguenti…
Intorno al fogolâr ci si sedeva, ci si disponeva a tôr a tôr, quasi come se si fosse intorno ad un altare o, comunque, ad un elemento sacro; dal fuoco nascevano storie, si discorreva di problemi, fatiche, magagne; si pregava, si piangeva, si barufàva, insomma, si viveva insieme.
Mentre guardiamo le panche che circondano la grande stufa e ci facciamo risucchiare dalla gran cappa ci chiediamo quale sia il luogo fisico dove ora facciamo quel che si faceva lì, allora. In auto, dice qualcuno. Su facebook, aggiunge un altro. Di bessoi, pensiamo in tanti. Fasìn di bessoi stavolta non ci riempie granchè d’orgoglio…anzi, ci dà una strenzuda al cuore.
Proseguiamo con la visita solo dopo che le nostre nari si son ben riempite di quell’odore misto di ramàtic e di stìç che intride da chissà quanto muri e oggetti. Sorridiamo pensando che oggi il “vuoto sanitario” del nostro benessere edilizio ci preserva almeno dall’umidità – se non dalla solitudine e dalla non rara incomunicabilità – e lo fa…per legge!
Attraversiamo la zona giorno incontrando stanze quadrate in sequenza, una dopo l’altra, denominabili come “salotto”, soggiorno” o simili. Troviamo arredi ben conservati, di un certo interesse ma non di gran lusso, comunque estremamente gradevoli e soprattutto utili a comporre la forma di questa ordinata e decorosa abitazione. La tappezzeria a righe che ricopre qualche sedia o poltroncina ben si accompagna con specchi un po’ tremuli e creativi, proprio come lo erano quelli dei nostri vecchi che vi si riflettevano ricevendo di rimando immagini approssimative, non nitide né precise, del loro apparire. Belli, belli anche per questo.
Qualche nefasta macchia di umido si arrampica salendo dal pavimento; seguendola ci accorgiamo con un po’ di ritardo cosa non ci tornava in quella sorta di inventario mentale che stavamo compilando. I tendaggi! Mancano le tende: niente abiti a coprire i semplici infissi di tinta chiara che, così, ancor di più fanno entrare abbondanza di luce come a voler far vivere a lungo ogni centimetro di questa casa.
Saliamo, con il permesso del custode.
Le scale rumoreggiano e borbottano perché sono ormai diventate un po’ scontrose e abituate a quiete e silenzi compatti.
Cerchiamo di tener passo leggero anche se la voglia di andar su ci mette fretta. Il puttino ci saluta dal soffitto e ci consente di raggiungere il primo piano, intimandoci l’alt per il secondo, evidentemente non agibile.
Siamo all’inizio del lungo e poetico corridoio di tavelòns di lèn crût: a destra presenta finestre intervallate da immagini (belle foto in mostra, fresche, poetiche e delicate, perfettamente in tono con l’ambiente); a sinistra si aprono le porte che danno sulle camere. Una è vuota, ha solo un materasso a righe nocciola o verdine, arrotolato e abbandonato su una rete a maglie metalliche; fa un certo impatto, è una natura morta pregna di desolazione.
Andiamo oltre e ci rincuoriamo, in particolare, quando arriviamo all’ultima camera, quella proprio in fondo al corridoio. Matrimoniale a letti separati, rigorosamente fatti. Ai loro piedi la panca per riporre i vestiti, ricoperta anch’essa da una stoffa delicata e chiara. L’immagine della Madonnina veglia dalla parete e un piccolo armadio nell’angolo si accompagna ad un paravento gusto primi Novecento. Quella stanza ci affascina ma ci fa sentire un po’ in colpa, come se stessimo violando una intimità familiare.
Un provvidenziale, insistente e rabbioso ronzìo ci scuote: qualche ape deve aver trovato bon stâ a Casa Dal Dan e vuole a tutti i costi scacciarci sotto la minaccia dell’acuminato pungiglione. Di malavoglia esaudiamo la richiesta e ripercorriamo a ritroso il bel corridoio, apprezzandone ancora una volta la veduta prospettica e l’aroma delle assi che lo compongono.
Se avremo occasione di tornare a Casa Dal Dan, lo faremo con occhi più calmi, meno confusi dalla bella sorpresa avuta nel corso di questa prima nostra visita, dove non ci aspettavamo affatto di trovare una dimora ancora così prepotentemente autentica e preservata dalla mano e dagli odori moderni. La prossima volta, dunque, potremo spaziare con lo sguardo e perlustrare anche lo scoperto, i quindicimila metri circa di terra e pertinenze che completano il Lascito e la storia di Cjasa Dal Dan.
Grazie, Siora Paola.