A forza (si fa per dire) di veder ville, uno ci prende gusto… e persevera!
E’ una sfavillante domenica mattina, finalmente! Ci eravamo dimenticati di cosa significasse godere di una giornata tersa e di quanto belli e vividi possano essere i colori del Creato, abituati come eravamo – ma mai rassegnati – a un grigiore persistente e tenace che rischiava di ammuffire il panorama e… il morale. Tutta la violenza della buèra dei giorni passati ha causato, purtroppo, seri danni a persone, cose ed economia in paesi e città a pochi chilometri da noi; a chi, quindi, ne patisce le nefaste conseguenze, va il nostro pensiero e la nostra vicinanza. E qui? Ca’ di nô, tutto quell’agitarsi di raffiche ha prodotto indubbio scompiglio e una temporanea pulizia del cielo, liberato, per il momento, da torve nuvolaglie, e ritinteggiato di un azzurro degno d’un velo mariano.
Bellezza chiama bellezza, secondo un circuito virtuoso. Memori delle suggestioni gjoldùdis ju’pa’ Bassa (v. puntata trentuno), accogliamo l’invitante occasione del “porte aperte a Villa Locatelli” per recarci tra le morbide colline di Cormòns (GO) e raggiungere la splendida località Angoris, dove ha sede la omonima Azienda vitivinicola, ennesima testimonianza del bello e del buono delle nostre terre, dell’amore e della dedizione appassionata di chi le conduce. L’occasione di oggi portava facilmente – dato il curatissimo e prestigioso contesto – a questo genere di considerazioni; pensieri analoghi, tuttavia, sorgono immediatamente anche quando, durante una qualsiasi distratta passeggiata in campagna, ci cade l’occhio su semplici fazzoletti di boschetto puliti, sfrondati e pettinati come uno scolaretto, come pure sulle immense distese di campi coltivati, spidocchiate da qualsiasi sassetto avesse mai osato turbare l’ordine e la uniformità della linea di terra. Anche lì la cura e l’attenzione vengono fuori, eredità e insegnamento dei nostri vecchi, che dalla terra traevano sopravvivenza e che ad essa davano le forze dei loro anni migliori.
Le riflessioni fanno andare lontano, ma tornano presto al motivo che le ha ispirate:questo accade, precisamente, nel momento in cui imbocchiamo a piedi il viale che conduce alla Villa. Abbiamo il sole contro che nus incèa con arroganza, dimentico di essere solo ai primi di febbraio. L’effetto è cinematografico, dato che il bagliore quasi nasconde la facciata di Villa Locatelli in un suadente “vedo – non ti – vedo”, che contribuisce a pizzicare la fantasia e incrementare le aspettative. A poco a poco, il sipario si apre e l’occhio decodifica l’immagine, ricomponendo innanzi a sé un bel volto di edificio a due piani, bel tenuto, barbuto d’edera disciplinata da mani pazienti. Man mano che ci avviciniamo a Villa Locatelli, mettiamo a fuoco la figura di un primo addetto del personale di servizio che attende ospiti, avventori e…turisti in biel lant (!) e li indirizza verso l’ingresso laterale dal quale si potrà accedere agli interni. Noi non abbiamo gran fretta di entrare, tant’è che indugiamo un po’ ad ammirare, nella sua visione d’insieme, la pregiata dimora e accettiamo la raffinata seduzione che essa mette in atto. Sicuramente, oltre quei tre ampi e luminosi finestroni al piano primo, ci sarà un salone delle feste. Quanti matrimoni, ricorrenze, feste importanti avranno trovato ( e troveranno) qui la loro sede di svolgimento, legando indissolubilmente il bel ricordo di una tappa esistenziale all’indimenticabile atmosfera che solo le ville signorili vecchie di secoli e dense di storia, di nomi, di eventi sanno regalare. Fascino del tempo che fu, di antichi fasti, di dimensioni del vivere che ci piace ammantare di fiaba, forse per trovarvi rifugio e consolazione, in una sorta di parentesi sospesa rispetto al “qui e ora”.
Questa voglia di tempo sospeso anima, probabilmente, molta parte dei visitatori odierni, eccezion fatta per chi è accorso in quel di Angoris per un sopralluogo prenuziale o per quelli che sognano o progettano un romantico ed esclusivo (come si usa dire) soggiorno, circondati dalle bellezze del luogo.
Assecondiamolo, dunque, quel desiderio di …parentesi e percorriamo il tappetino di panno verde che ci conduce ai tre o quattro gradini d’ingresso.
E’ ora che siamo nel vivo della nostra mattinata. Ci lasciamo condurre dalle spiegazioni della Padrona di Casa che ci regala un excursus storico sulla sua residenza, per poi permetterci di girare liberamente per le stanze ad ammirarne gli arredi. In occasioni del genere, mi capita letteralmente di perdermi nei particolari, facendomi facilmente catturare da vasi cinesi, antichi paralumi, ceramiche e argenterie, nonché magici specchi antichi, irresistibili in quelle loro opacità o aloni e macchiette varie. Per non parlare di quella bella pendola color noce, smilza e alta e tutta d’un pezzo, dritta e impettita come un corazziere della Repubblica. Raffinato quadrante dorato con scritte in inglese; eleganti numeri romani e le due immancabili prese in cui innestare le chiavi per la carica (chi di noi ancora ricorda di quando caricavamo – a mano! – la sveglia o l’orologio da polso??? Suonerà strano, eppure lo facevamo, e si trattava di un gesto così naturale da essere diventato automatico…più del cronometro stesso!)). In ogni stanza un camino a portar conforto; accostati alle pareti tanti tavolinetti e mobilio vario, spesso con pianale in marmo o sobri intarsi. Qualche pezzo esotico non manca, come non mancano i quadri alle pareti, alcuni degni di particolare attenzione. Se ci si aspetta almeno un maestoso lampadario di vetro lavorato e impossibile da pulire in tutti i suoi fiori e tralci e decori, ebbene…c’è! Come si è accontentati se si cerca la stanza dedicata a biblioteca: qui sono conservati, in austere vetrine, volumi in pelle e cuoio sui toni del tabacco, del bordeaux, dell’ocra, ordinati per dimensione e per materia. Troveremo l’enciclopedia, testi di diritto, di medicina, di letteratura latina e molto altro.
Esplorato anche il primo piano, mentre allunghiamo lo sguardo verso la rampa delle scale, l’attenzione è letteralmente imbardeada da un oggetto lì per lì strano, appostato sul pianerottolo. Riusciamo a scrutarlo non proprio da vicino, ma basta una manciata di secondi per dargli il nome: è una portantina! Mai mezzo di trasporto può essere più distante dalla nostra epoca, più curioso e particolare. Lo eleggiamo, unanimi, a immagine – ricordo di questa visita, proprio per averci colto, spavaldo, così di sorpresa nel suo presentarsi, inaspettatamente, davanti ai nostri occhi e alla lente del buon calice che, nel frattempo, ci siamo procurati.
E’ ora di tornar fuori: ci avvisano che anche la cappella e la limonaia meritano un cuc, mentre il tepore del sole e il profumo dei vicini cipressi fan sognare una non lontana primavera.