Nella puntata trentasei ci si interrogava sul perché tirare in ballo proprio gli uccelli.
Indubbiamente l’avvistamento di qualche parusàt o altre specie può aver suggerito e stimolato la digressione, ma il vero motivo è dato dalla méta del nostro andare: si va per roccoli! Si va a visitare quelle grandi trappole arboree che l’uomo costruiva e usava per catturare uccellini e rivenderli al miglior offerente (magari qualche ristoratore cittadino).
Notizia ufficiale: da dicembre 2014 in Italia no si pô plui lâ a oselâ! Niente deroghe, eccezioni, casi particolari: no si pô e vonda! Eppure la cattura degli uccelli – decenni addietro – era una attività rispettata e diffusa, importante per l’economia della zona, regolamentata dagli usi locali che la consentivano solo in determinati periodi dell’anno. Lo scopo di tale calendario era ovviamente conservativo: le risorse non avrebbero mai e poi mai potuto venir assottigliate con catture controproducenti, irrazionali e irrispettose dei naturali cicli di riproduzione e di vita degli animali, altrimenti il futuro sarebbe stato funestato da bottini via via più magri.
Solo da fine agosto a fine novembre l’uccellatore si trasferiva (con armi e bagagli, letteralmente, proprio come fa un malgaro che va a vivere nella malga d’alta montagna nella stagione calda ) nel casotto mimetico costruito al bordo del ròcul e lì risiedeva, per poter compiere con attenzione e perizia tutte le attività legate alla cattura. La famiglia tutta lo aiutava, bambini compresi. I piccoli, infatti, con le loro manine sottili avevano il compito di andare a pigliare le prede andate a finire nel tramaglio (tramài, serie di reti a tre strati) e…guai a tirar troppo! Le maglie si potevano sfilacciare o strappare e, in tali casi, arrivava il guano, quello metaforico, però! Bisognava – di corsa e di nascosto – rimediare e riparare il danno.
Anche le nonne avevano il loro compito: spennare e spiumare i poveri volatili usando tutte le attenzioni possibili. Gli esserini dovevano essere presentabili e in buone condizioni, altrimenti si verificava quel che accade oggi con una mela leggermente macchiata: e je buena compagna, ma no tu la rivis a vendi!
Il paròn o il concessionario del ròcul aveva, naturalmente, il ruolo fondamentale di far funzionare il tranello e sferrare l’attacco fatale e traditore: si serviva di richiami – a mo’ di sirene ammaliatrici – e di golosèts con succulenti bocconi di cibo per attirare gli uccelli in sorvolo verso la traditrice frasca; una volta planati nella trappola, con mossa repentina l’uccellatore lanciava loro uno spavènt (uno straccio su un filo con nodo a scorsoio o qualche altro babau)che attraversava in gran velocità il roccolo e…nel fuggi fuggi, gli uccelli per istinto scappavano in orizzontale e senza prendere subito quota. A forza di osservare la natura e il comportamento di vegetali e di animali e di sentire l’eco sorda de sô pansa vueida, l’uomo da tempo ormai si è, infatti, ben accorto anche di questa strategia dei pennuti e ha, naturalmente, sfruttato a suo vantaggio quanto appreso. Le reti basse fanno il resto, mentre la invocatissima Santa Scugna scaccia come può la fame e la miseria di tempi magri.
Adesso è diverso. Pance per lo più ancora piene, le nostre, nel qui – e – ora. Di altro genere è la nostra fame, il vuoto da colmare non si sazia con polenta e osei. Ringraziamo infinitamente la fortuna di avere il piatto nutriente e le generazioni che han sudato per far vignî fur de miseria i figli, cercando sollievo e sostentamento persino in quattro ossicini di uccello. Riflettiamo su antichi brontolii di stomaco e sulle nostre contemporanee lacune:un po’ di sazietà la troviamo entrando fisicamente in un roccolo. Così facendo, attraversiamo un’epoca e la interroghiamo, forse nel tentativo di capirci meglio e di considerare più oggettivamente il nostro oggi, in cerca mai paga di verità dalle quali ripartire, di virtù e valori da rifondare e ai quali far riferimento (ne abbiamo bisogno, al pari di quel tizio irsuto e con la clava, un po’ più anziano di noi!!!).
Pochi ròcui sono rimasti in piedi nella bella Montenars, zona un tempo vocata all’uccellagione: chi ne possiede uno viene invitato a conservarlo nel tempo come testimonianza della cultura e storia economica locale. Due roccoli vanno qui citati per nome, in quanto visitati con l’allega brigata degli escursionisti di cui in apertura di articolo.
Il primo roccolo viene ricordato per la fama e il valore umano di chi lo possedeva – Pre’ Checo Placereàn – e per la sua forma particolare, rotonda nella prima parte, come si usava in montagna, rettangolare poi, come per le bressane di pianura. Da lì – siamo sul cocuzzolo del monte Cjampeòn – si apre una bellissima panoramica che, in giorni tersi, abbraccia lungimirante il tarcentino e non solo. In primis si vede, infatti, dall’altra parte della valle, la frazione di Stella, famosa per le formelle della Via Crucis e per l’altrettanto affascinante balconata sul Friuli.
Il secondo roccolo segna sia il punto di partenza (all’inizio, infatti, esso si trovava a breve distanza da noi, posto com’era alle nostre spalle) che il punto di arrivo dell’escursione. Si chiama “Ròcul dal Puestìn” e mostra un casotto che sta perdendo i tipici tratti spartani per assumere quelli di chalet di montagna. Merita una foto e il proponimento di farvi ritorno in estate, quando offrirà frescura e ombra.
La precisa e studiata dislocazione delle piante dimostra quanto sapere e saper fare si armonizzassero nell’architettura del ròcul, dove ogni elemento veniva scelto con oculatezza, dal tipo di albero alla sua disposizione sul terreno.
Vi era anche una certa gestione degli imprevisti, abilmente riconvertiti in risorsa od opportunità. La cattura accidentale di un çus, ad esempio, arricchiva la dotazione di richiami del ròcul: il çus, legato ad un trespolo, infatti, attraeva dispettosi uccellini che, come è noto agli esperti, nelle ore diurne sono soliti disturbare i rapaci per infastidirli e farli sloggiare, in modo che campo libero venga lasciato esclusivamente a loro, predatori piccoli e di poco peso. Vero e proprio esempio di mobbing tra non umani, a conferma del fatto che noi, bipedi pallidi e presuntuosetti, non abbiamo inventato nulla (neanche i comportamenti più beceri o meschini) che già non fosse stato scritto nel gran libro della Natura!