Ci eravamo lasciati incantesemâts davanti a quella bella Dama dalle gote arrossate e corrugate dal tempo, vale a dire Villa Manin Kechler di San Martino di Codroipo (UD). Ricordate? Si accennava alla sua barchessa divenuta filanda e ora sede del Museo Civico delle Carrozze d’Epoca.
Qual migliore metafora di un “viaggio nel tempo”…perché è davvero un viaggio quello che si compie durante la visita, un cammino a ritroso che attraversa il Novecento e si spinge sino agli ultimi decenni dell’Ottocento. Oltre quaranta (ma ci pensate?! Quaranta! In pratica l’equivalente di una concessionaria contemporanea con un parco auto di tutto rispetto!) spettacolari e ben conservati esemplari da ammirare a trecentosessanta gradi.
Il visitatore medio è assai buffo perché, rapito dall’indiscusso fascino ammaliatore dell’ormai desueto mezzo di trasporto, cerca di carpirne i segreti e le recondite bellezze contorcendosi e spiegazzandosi in tutte le angolature consentite dalle articolazioni. Anche noi ci lasciamo trascinare da questa sorta di voieuristica danza, zoomando noi stessi fisicamente sull’oggetto del nostro bel vedere: tre passi indietro, per cogliere la carrozza nella composta bellezza del suo insieme; quattro passi avanti per afferrarne i particolari, gli intarsi, le nappe, le frange.
Proseguiamo con il naso in allungo, quasi sorpresi (le plastiche e le materie di sintesi delle nostre auto, dei nostri vestiti, a volte dei nostri cibi! hanno mandato in prepensionamento – causa inutilizzo – tatto, olfatto e gusto) dal profumo di legno, cuoio, panno di lana, paglia intrecciata, ferro, cera…materiali veri, naturali e ancora vivi e bisognosi di cure.
Qualche cartello, anzi, qualche “cartella clinica” ci racconta lo stato di salute degli anziani mezzi: questo è affetto da tarli, quello richiede periodiche disinfezioni, quell’altro era piuttosto screpolato e ha dovuto ricorrere a innesti di nuova sostanza. Tutti indistintamente esigono che temperatura e umidità vengano tenute sotto controllo e, soprattutto, campano finchè ricevono amore e attenzioni. Insomma, un po’ come i cristiàns.
Nella scomposta danza, ovviamente sempre rispettando le dovute distanze, non possiamo trattenerci dal far le giraffe e allungare il collo fin dentro l’abitacolo della carrozza che, in quel momento, attira la nostra attenzione. L’impressione iniziale è, effettivamente, quella di curiosare in casa d’altri, giacchè ci si accorge subito che i particolari della tappezzeria e gli optionals interni sono frutto di precise scelte personali, determinate da valutazioni di ordine estetico e da necessità pratiche. Chi usava quella determinata carrozza vi ha lasciato la sua impronta, il proprio segno, esattamente come quando un anonimo oggetto che acquistiamo riflette, dopo un po’ che è in nostro possesso, la nostra personalità. E’ connaturato all’essenza umana l’intimo desiderio di lasciar traccia, di togliere dall’anonimato e di “individualizzare”.
Inoltre, inutile negarlo, ci sentiamo meglio e più in armonia col mondo quando ci adoperiamo per tentare di “addomesticare le cose”, facendole un po’ diventare “a nostra immagine”.
Ma torniamo agli interni. Superato il pudore iniziale, riusciamo ad apprezzare pienamente la grazia e la cura nella scelta delle finiture.
Ognuna delle carrozze esposte aveva una sua precisa funzione e dei target di utenza ben individuabili. C’è la prima, ovvia distinzione tra carrozza privata e omnibus pubblico. Nel mondo dell’utenza privata si spazia a seconda dei posti a sedere, del numero di cavalli da potervi attaccare, della stagione in cui i mezzi venivano usati, dell’età di chi ne faceva uso o della sua estrazione sociale, dello scopo degli spostamenti o della tipologia di animale impiegato.
Alcuni esempi che portino chiarezza? Carrozze con sci al posto delle ruote e interni con pelo folto per i viaggi nei freddi paesi del nord Europa; carrozze da caccia, con cani alloggiati nello spazio ricavato sotto i sedili; carrozze da pic nic con tanto di cesto di vimini per i viveri, sistemato saldamente sul tetto; carrozze per governante con bambini, fatte apposta per impedire qualsiasi tentativo di fuga più o meno volontaria dei pargoli; e ancora carrozze decappottabili, carrozzelle da corsa, da signora, da città (easy drive – easy park, si direbbe con terminologia presa a prestito dal mondo automobilistico), da… chi più ne ha, più ne metta. Troveremo, addirittura, mezzi ai quali attaccare mamma cavalla e puledro a fianco, o minicarrozze trainabili da capre o cani forti e pazienti.
In conclusione: carrozze da vedere, una ad una, con attenzione perché i particolari, qui, fanno davvero la differenza. Risuonano, allora, nelle orecchie, le parole del vecchio nonno quando raccontava della briscjuta di famiglia e della cavalla Cìla – quella bianca dalle signorili zampe sottili, così poco adatta al lavoro nei campi – o della più anziana Sàura, che percorreva un mondo molto più esteso di quello attuale e che, al posto del tutto sommato futile e nevrotico qui – e – ora, contrapponeva la fatica e la pazienza per ogni cosa ambìta, viaggi compresi.