Parlare a cuor leggero di solatìe escursioni in riva al fiume è – datemene atto – pressochè impossibile in tempi così intrisi di piogge, frane, preoccupazioni, vittime e alluvioni. Anche il più innocente dei torrentelli che solcano sonori le nostre montagne e pianure può diventare un mostro limaccioso dalle grandi fauci; velu lì, mentre sbava sulle case dopo aver “raggiunto i livelli di guardia”, come usano dire ai tiggì…
Figuriamoci, allora, cosa può fare un corso d’acqua più imponente – un fiume – in preda al delirium tremens da ubriacatura di acqua piovana, servita senza tregua. Un fiume è un corpo vivo estremamente potente e va considerato con rispetto: sa regalarci sensazioni di profondo benessere quando è placido al passaggio e si palesa in tutta la sua maestosa e profumata bellezza. Riesce, però, con altrettanta capacità di impressione, ad incuterci profonda paura quando è grosso e gonfio e ha irrimediabile voglia di rigurgitarci addosso qualcosa di sé.
Il Natisone, in queste settimane, non ha, per nostra fortuna, varcato la soglia dei suoi argini ma ha assunto faccia torva e occhio cupo, ricordandoci l’immensa potenza della Natura. Ritornare con la memoria, allora, al suo volto luminoso e brillante di poche settimane fa deve cercare di far ben sperare. Ma cosa? Sperare che tutto si aggiusti e trovi un nuovo equilibrio e che – è il caso di dirlo, quando le acque si calmeranno – gli uomini facciano del loro meglio per asciugare l’Italia e mettere in sicurezza almeno alcuni dei nostri numerosi punti deboli in quanto a dissesto idrogeologico.
Ci eravamo lasciati, nella puntata diciannove, sulle tracce dell’orso e della poiana.
Appena questo autunno si secca e si degna di mostrarsi di nuovo nella sua bellezza, è proprio il caso di rimettersi a seguire le orme dei due animali. Cosa li accomuna? Nella storia in questione, il godibilissimo percorso fino al valico di Stupizza – ricordate? – tenendo d’occhio il Monte Mia e ricordandosi di fermarsi ai suoi piedi.
Durante quel tratto di sentiero di cui accennavo la volta scorsa, potreste imbattervi in drappelli di cacciatori che, tra il meravigliato e il divertito, vi chiedono cosa fate lì e se vi siete persi: evidentemente è più frequente trovare selvaggina o grossi erbivori che pallidi bipedi spelacchiati in gita da quelle parti!!!! Ennesimo segnale a riprova di quanto sia opportuno valorizzare e aprire ancor di più alla fruizione turistica (chiamiamola così, per ora) quella bella fetta di terra che da Furlanìa in senso stretto diventa Slavia friulana: una peculiarità culturale da amare, conservare, far scoprire senza risparmio di fiato.
Stare al gioco con gli uomini muniti di sclopa e carniere è simpatico e conveniente: è facile che, in occasioni come questa, chi conosce bene la zona regali una piccola dritta su qualche punto degno di visita ma sconosciuto ai più.
Proseguendo il cammino, il rumore di alcune auto ricorda che la strada asfaltata non è molto lontana e che si sta avanzando sempre in parallelo ad essa. Niente paura: la vegetazione e il fiume fanno da tampone fonoassorbente e consentono un buon livello di tranquillità per i nostri padiglioni in cerca di pace.
Dopo aver oltrepassato un paio di grossi tronchi, varchiamo il letto di un ruscelletto ripido in secca; qualche masso fa da punto di appoggio ai nostri passi, poi nuovamente confortati da un camminamento orizzontale.
Il premio, alla fine, arriva inatteso e lascia senza parole. E’pertinente tirare in ballo una sorta di piccola biosindrome di Stendhal: un paesaggio naturale che, poiché percepito come bello, commuove e fa conoscere un momento di felicità. Vitamina per il nostro animo, a rischio costante di crepe da indurimento.
Quel che si para davanti agli occhi non è tanto uno scenario fatto di elementi maestosi per dimensioni e volumi ma è la brillantezza raccontata con il linguaggio della Natura.
Qui tutto scintilla: il Natisone in primis, che si apre ampio e morbido e fa larghe curve, sprizzando gocce di luce dalle sue acque più superficiali; la stradina acciottolata fine che splende di biancore e un po’ abbaglia; la catenella su un lato che fa riflesso metallico e accompagna cerimoniosamente verso un punto che si intuisce importante. Un riverbero diffuso illumina la smilza passerella che conduce da una sponda all’altra del corso d’acqua. Insomma, tanti elementi denotano che qui cova qualcosa: qualcosa che non si vede ma c’è. La conferma definitiva si ha avvicinandosi all’imbocco della passerella: è una porta – quasi dantesca! – con un’ala semicircolare di ferro sul lato, a mo’ di parata e di protezione allo stesso tempo. Il nido del Poiana – ovviamente si tratta dell’Acquedotto e della sorgente omonima che gli dà vita – si trova oltre la porta, oltre la passerella, sull’altra sponda del Natisone.
Non possediamo le chiavi ma sappiamo che la visita è possibile, l’accesso anche a quella conoscenza è alla nostra portata e sarà frutto di una prossima esperienza.
Con il permesso del Natisone, dell’Orso e della Poiana, s’intende.