Ci eravamo lasciati al cospetto del Gorgazzo. Proseguiamo, ora, in un ambiente in cui il bello della Natura si unisce al bello prodotto dalla mano dell’Uomo. Ogni tanto è bene che ce lo ricordiamo: da quelle mani dotate di pollice oppositivo non nascono solo soprusi, abusi, arraffa – arraffa e nefandezze varie ma anche creazioni che impreziosiscono il mondo, lo riempiono di Cultura, Amore e Dignità. A questo punto della Storia è utile e salutare ricordarsene, per poter pensare a gettare nuove fondamenta basate su una rimeditata fiducia nell’uomo…Se è nostra intenzione riedificare nuove e migliori forme di convivenza civile, di economia, di rapporto con le risorse e l’ambiente, abbiamo bisogno assoluto e urgente di piloni su cui poter far poggiare i nostri costrutti di pace e di rispetto universale. Da questa rapida incursione verbale nel paese della quasi – utopia, ritorniamo a piè veloce sulla strada del potente Gorgazzo e ci dirigiamo verso il Suo salotto per i ricevimenti: la stupenda cittadina di Polcenigo (solo una manciatina di chilometri in auto, niente paura). Vi assicuro che, appena vi si arriva, ci si domanda come sia stato possibile non averla sino ad oggi visitata. Al piacere della scoperta non ci si abitua mai e anche qui scocca la scintilla dell’incanto, quella che fa assumere un’espressione tra l’inebetito e il bambinesco: chebbbelllloooooohhh!!!! Ristorati dalla prima, ottima, impressione, si prosegue imboccando una stradina qualsiasi, lasciando al caso il compito di farci da guida turistica e di mostrarci le particolarità del luogo. Senza cartina topografica, senza libretto illustrato, senza Wiki o qualche pad saputello – praticamente a mani nude se si eccettua la presuntuosa scatoletta di plastica che si spaccia per fotocamera da cuatri braçs e un franc – si va indenant nome spalancant ben i voi, cercando, cioè, di focalizzare ciò che ci si presenta innanzi: signorili palazzi – tanti! – costruzioni antiche che si affacciano, affratellate in un’unica cordata, su vecchie strade e acciottolati, ponticelli belli saldi su acque sempre gonfie e impetuose (qui l’elemento liquido, s’è visto, non scherza e mai cessa di far sentire l’imperio della sua voce), viuzze in salita tutte da esplorare. Non mancano chiesette ben ristrutturate e ripristinate, di cui colgo una addobbata a festa con le immancabili bandierine triangolari di mille colori. E’ intitolata a San Rocco e risale, forse, all’inizio del XIV per opera della omonima confraternita; lì vicino sorgeva l’antica porta occidentale di Polcenigo, Porta Coltura. Un naso – nella fattispecie il mio – nel luogo sacro va messo, pur se in punta di piedi: alcuni fedeli, infatti, sono raccolti in preghiera e hanno il (davvero) sacrosanto diritto di continuare a godere della pace e dell’intimità che si respirano all’interno di quelle antiche mura. Do, quindi, una rapida occhiata, poi riguadagno l’aperto. Cjala ca, cjala là, mi son dimenticata di compiere un gesto che è insieme simbolico e ragionevole e che andrebbe messo in atto come esercizio quotidiano e stile di vita. Intendo dire che ogni tanto è opportuno e costruttivo alzare gli occhi da terra e guardar cosa c’è un po’ più in su! Incantati, riempiti e rapiti dai balocchi che sono alla facile portata, si rischia di trascurare di andar oltre e di assumere un punto di vista nuovo, magari più critico o comprensivo e largo. Per mia fortuna, invogliata forse dalla dolce pendenza del terreno, in questa felice occasione lo faccio e…con un misto di stupore e soggezione mi accorgo che ad essere ben guardata dall’alto son io! Da chi? Uno grande e grosso, uno di quelli che mette a zittire sono con la sua presenza massiccia. Vecchio assai, ne avrà viste di cotte (tant’è che pare fosse stato distrutto da un incendio) e di crude. Sto parlando ovviamente de “Il Castello”, antico maniero che si erge su una bella collina dalla quale tiene sotto controllo Polcenigo e la vallata. Quel che si vede oggi è la ricostruzione settecentesca nelle sembianze di villa veneta, fatta usando sempre le antiche pietre dell’edificio originario. Che peccato, osservando meglio mi accorgo che del potere è rimasta solo la facciata, mentre il corpo della struttura è andato in rovina (qui scorrerebbero fiotti di battutacce che Vi risparmio!!!). Il mio cervello, però, attiva la modalità 3D e completa – come nelle più recenti ricostruzioni virtuali di palazzi e monumenti proposte nei documentari degli anni Tremila – le parti mancanti. Per un attimo mi par di vedere di nuovo il maniero integro e sfolgorante come nel suo antico splendore. Mai dire mai. Perché non sperare che un moderno magnate, lo Stato o Enti Locali, cualichidùn, insome, faccia il miracolo e trovi le fantomatiche risorse (mai termine fu più usato come in questi ultimi anni di economia a rotoli) per ridar vita e sostanza al colosso.
Vi avviso che il fascino che sa trasmettere il castello è ammaliante e per un po’ riesce a ottenebrare tutto quanto di bello c’è nei dintorni. Bisogna concedersi una pausa per metabolizzare l’esperienza e…a proposito di metabolismi, dicono che da queste parti con la cucina se la cavino parecchio bene. E’ il caso di provare, allora. Prossima tappa: il primo ristorante!