Siamo onesti: dopo 18’ e sul -17, la maggior parte fra noi avrà pensato che al Benedetti, contro Bergamo si sbatte contro un inviolabile tabù. Difesa rivedibile, attacco sterile ma soprattutto avversari (guidati dall’implacabile Ghersetti e da Bloìse) che avrebbero segnato anche bendati e con la mano destra legata dietro la schiena. Nulla avrebbe fatto pensare ad un’inerzia cambiata sul campo. Lardo ruota i suoi, ma la palla persa da DiGiulio con la sfera che gli carambola sotto le gambe e finisce ai gialloneri è emblematica di quel momento.
Riesce, Udine, a ridurre un po’ il gap quando a fine primo tempo i giocatori orobici si sentono arrivati, i loro tifosi urlano la propria gioia ma Toni Porta, gaucho italiano di Santa Fede, tira da sette metri la bomba del meno dodici.
E me lo immagino, Antonio, negli spogliatoi, da capitàn a fianco di Manuel Vanuzzo: ché lui non ha lasciato le sponde del fiume Paranà per farsi metter sotto a casa, nella Sparta friulana; ché le gare si possono vincere perdere pareggiare mandandole all’overtime, ma non mai chinando il capo e donandosi all’avversaria con la docilità olocaustica dell’agnello sacrificale.
Non dopo una stagione regolare con quasi tutte vittorie; non dopo aver dato spettacolo per un’annata intiera, vincendo contro tutti e ovunque. Non quando dallo spogliatoio avversario si sentono gli high five che gli orobici si stanno di certo scambiando.
Ed al rientro in campo, il trademark bianconero torna in scena: una distruzione, un annichilimento totale i 40 punti presi nei primi venti minuti, due punti ogni giro di lancette. Una rivendicazione del brevetto di coach Lardo, invece, i ventiquattro pezzi messi a segno nella ripresa dagli ospiti, che subiranno 44 punti friulani ed un parziale, da quando Porta si alzava a due secondi dall’intervallo lungo e segnava la tripel testé descritta, decisamente a noi usuale: 47-24.
Bergamo non trova fluidità; Planezio e Ghersetti non ricevono più comodi extrapass che li liberino a tiri in campo aperto; tutti i bianchineri a referto sputano sangue e lacrime sul parquet, non lasciando nulla in terra. Meno quattro al 30’, poi il sorpasso e gara punto a punto sino a 109’’ dalla fine; palla a Udine, Truccolo sbaglia un tiro pesante, Castelli svita il candelabro intiero e gli ridà palla: Riccardino nostro ha coraggio e sventatezza, ci riprova e porta i suoi a +5. Bergamo ci capisce sempre meno, una palla contesa esce a lato e la coppia in grigio, solito binomio quintessenzialmente mediocre, la assegna prima ai gialloneri e infine all’A.P.U. Sarà Castelli a metter giù la tripel dell’apoteosi: otto punti di vantaggio, gara ribaltata di tecnica e agonismo, uno a zero e palla al centro.
Era fondamentale vincerla: a prescindere dalla lunghezza della serie, far capire a Bergamo che il loro miglior basket contro un’edizione udinese al cinquanta per cento delle proprie possibilità vale dieci punti di scarto (per i bianchineri) può essere esiziale per gli orobici. La Co.Mark viene da una serie esaltante contro l’Orceana, vinta anche meglio del 3-1 finale, e questa sconfitta al vecchio e piccolissimo Maranga (ogni riferimento all’ignavia nella gestione della ristrutturazione del Carnera è puramente voluta) gli sarà fredda come una doccia scozzese.
Commentando il primo tempo, auspicavo il Quarto d’Ora Granata di Udine: per le due persone non ne fossero a conoscenza, sto parlando di una delle mie squadre del cuore, il Grande Torino perìto a Superga. Quando la gara si trascinava, quando l’esito non era quello desiderato, il mitico trombettiere dagli spalti suonava la carica; Valentino Mazzola, il capitano, si arrotolava le maniche e da quel momento partiva il Quarto d’Ora Granata. Spettacolo. Reti, vittorie. L’Alessandria riuscì, in uno di questi, a subìre dieci reti.
Ecco: Antonio Porta segna la tripla, si volge verso il Settore D a braccia alzate, invocando il ruggito dei tifosi che prontamente arriva. Quarantasette a ventiquattro: se non è Quarto d’Ora GSA questo… Con Bergamo ci vediamo fra un paio di giorni.