Ho avuto la fortuna di nascere nel 1972 ed avere dieci anni nell’estate 1982. Giusto in tempo per poter ubriacarmi della magia de Il Mondiale per eccellenza e di saperlo apprezzare come i bambini si gustano una rossa fetta di anguria ghiacciata. Ricordo le goccioline di sudore mentre nei pomeriggi al condominio emulavamo i vari Rossi, Cabrini e Tardelli nelle partitelle fra bambini in vacanza in quella che è la stagione più bella in assoluto.
Ricordo il viaggio in Liguria fatto con la 124 gialla di papà, io , l’artefice della mia passione per il calcio, papà appunto, e la nonna Maria. E un registratore in cui consumare, per tutta la durata da qui alla fetta di terra sul mar Ligure, una stessa cassetta che piaceva solo a noi due Marie e un po’ meno a papà, che però sopportò. Una volta nella terra di Montale che ci ospitava in un paesino arroccato in provincia di la Spezia insieme alla signora Virginia, ogni mattina, sempre con la stessa auto storica, ci si recava nelle spiagge più o meno frequentate che mi colpivano per essere piene di sassi grigi. Ricordo la visita alle meravigliose Cinque Terre e le mie pseudo telecronache in cui volevo imitare Nando Martellini, mentre raccontavo a modo mio le geometrie dei magnifici azzurri. La notte dell’11 luglio la vedemmo in un televisore in bianco e nero appoggiato su un frigo della cucina della signora Virginia, donna troppo nobile per non impressionarsi delle urla a squarciagola con le quali bucavamo la notte tranquilla di un minuscolo paesino dell’entroterra ligure, Baccano d’Arcola, per l’esattezza. Rimasero nella memoria la partita a carte di Bearzot sull’aereo di ritorno, le braccia alzate di Pertini nel momento del fischio finale e l’urlo “Campioni del Mondo” scandito tre volte da un sublime Martellini in una telecronaca irripetibile. Quel Mondiale di Spagna fu una sorta di anno zero per me. Leggendo le date di nascita successive al 1982 di molti amici mi stupivo di come avessero potuto vivere senza quella magia. Dell’86, nemmeno quattordicenne, non ho ricordi così vivi e luminosi, tranne uno: seguii distrattamente la tristemente famosa partita del 17 giugno a Città del Messico dove l’Italia fu eliminata dalla Francia. Distrattamente perché alle prese con una delle prime cotterelle adolescenziali, rese ancor più palpitanti da un innocente gioco a nascondino non lontano da casa. Le cicale cantavano e dalle finestre aperte fuoriusciva la voce concitata della telecronaca. Avevo quasi perso l’età dell’innocenza. Un passo decisivo per la mia crescita e maturazione di ragazza e di appassionata sportiva fu Italia ‘90: quasi diciottenne ebbi il privilegio di trascorre quelle settimane nel centro di Roma a casa dei miei zii. Vissi le emozioni di seguire le partite in compagnia di molti ragazzi e delle prime tempeste ormonali in cui un corpo di giovane donna si ribellava ad un’anima di maschiaccio ( erano ancora presenti le ginocchia sbucciate a causa delle innumerevoli partite di pallone nel giardino del mio condominio Olimpia). Il fascino della metropoli millenaria e la sensazione di essere libera per una pizza solo fra di noi o un giro in motorino lungo via Nazionale. E poi, lo stesso Mondiale vissuto anche in terra natia. Io e mio papà assistemmo allo stadio Friuli alle partite fra Spagna, Uruguay e Corea, mescolandoci fra i colorati tifosi mondiali ma portando sempre con noi il simbolo della nostra identità, la bandiera dell’Udinese. Ho molte foto di quei momenti scattate in una curva nord ( ex, ormai) in cui era forte il senso di straniamento e di internazionalità.
Di Usa ‘94 ricordo il mio primo fidanzamento storico e la famosa finale persa ai rigori a Pasadena (36 gradi, 70% di umidità). Delusione enorme negli occhi pieni di lacrime di Franco Baresi e nei nostri davanti alla televisione.
Francia’ 98 la vissi in modo intenso, preparando degli esami universitari e non perdendo nemmeno una partita dei vari gironi, né fasi ad eliminazione. Ho negli occhi lo Stade di France appena inaugurato e sulle pelle l’umiliazione per la sconfitta ai quarti contro i cugini francesi. Per la terza volta consecutiva gli italiani beffati ai rigori. Un mese dopo la finale trascorsi un periodo di studi a Parigi e le magliette piene di sfottò contro gli italiani erano ancora il gadget più venduto delle bancarelle del Quartier Latin. Ricordo che acquistai invece una t-shirt bianca della Sorbonne. Così, per cercare di non pensarci.
Questo film azzurro, mano a mano che passavano le edizioni del Mondiali, perdeva di fascino e magia ai miei occhi. E’ come sei dall’incanto di quella Spagna ‘82, percepito con gli occhi di una bambina di dieci anni, i colori si fossero attenuati, avessero perso luminosità, come se quelle goccioline di sudore sulle fronte si fossero asciugate.
Giugno 2002: improvvisamente la vita mi mise alla prova con la grave malattia di mia madre. Seppi della sconfitta dell’Italia contro la Corea del Sud, anche a causa del famigerato arbitro Byron Moreno, in una sala d’attesa di un reparto di terapia intensiva. Ero inondata ed ammutolita da un’angoscia profonda legata alle sorti di Maria. Non ricordo altro di quell’edizione, rimossa finchè ho potuto. Rimane la sensazione di lama alla gola che poi il tempo ha reso meno dolorosa.
Vincemmo il Mondiale nel 2006, lo festeggiai un po’ assente e lontana dalla pienezza dei miei anni migliori. Il 2010 è dietro l’angolo con i suoi tramonti sudafricani e il rumore assordante delle vuvuzelas. Nessuna emozione da raccontare.
La storia continua, stasera si ricomincia, nella patria più patria per un mondiale, in un Brasile pieno di contrasti ed asprezze, dove la miseria sgomita con i vizi capricciosi dei signori calciatori. O niente o tutto.
Seguirò le partite con spirito incuriosito ed attenta alla cronaca ed al costume. Con una prospettiva adulta di donna appassionata di sport. Non so se ritroverò quella magia dei miei dieci anni, raccontata sui diari pieni di ricordi.
In fondo sono rimasta là, in quel prato sotto casa con le ginocchia colorate di verde e il sudore sulla fronte a gridare “Campioni del Mondo, Campioni del Mondo, Campioni del Mondo!”.