Un punto a Sassuolo; tre di vantaggio sulla zona retrocessione; una condizione atletica spaventosamente carente. Eppure si parla, giustamente, di segnali positivi.
Pensate dove stavamo solo sette giorni fa, amici miei biacca-e-carbone, per giudicare questa situazione migliore di quella che si registrava una giornata di campionato or sono…
Luigi De Canio, quasi sessantenne materano ripescato dai Pozzo dall’Aventino cui si era confinato, per dirla mourinhanamente non è un pirla: non possiede ricette tattiche fotoniche, non ha una rosa spaziale a disposizione e decide, intelligentemente, di inquadrare i suoi undici nella migliore maniera possibile. Terzetto arretrato, con Tommasino Heurtaux in vece di Wague o Pirìs; cinque in mezzo al campo, con i mazzolatori Kuz e Fjørður Hallfredsson a cercar palloni, Widmer e Pampero larghi, Bruno appena più avanti a raccordarsi con le punte Duvàn e Théréau.
Il primo tempo è Udinese: il Sassuolo, privo di Berardi, sbuffa e stantuffa ma in area non ci arriva mai; i bianchineri all’ottavo concretizzano una veloce e semplice verticalizzazione, di quelle che un tempo erano marchio di fabbrica e con l’Anziate non si vedevano mai. Perfetto il traversone di Cyril, un giorno anche Adnan riuscirà a farne uno uguale. Forse. Forse no.
Karnezis non si sporca i guantoni, il possesso palla è abbastanza equanime ma, purtroppo, l’Udinese manca due, tre occasioni clamorose per chiuderla. Peccato originale di una stagione da dimenticare.
Nella ripresa il Sassuolo spinge a più non posso, entrano Falcinelli e poi Berardi, ma la rete viene dall’ennesima amnesia biancanera: un preciso cross di Peluso, lasciato colpevolmente solo, è incornato in rete da Politano, il più piccolo della compagnia, marcato discutibilmente da Armero.
Fin lì, e di lì in poi, il Sassuolo gira palla sterilmente e non tira in porta mai; la rete non viene infatti dalla svolta tattica di Di Francesco, bravissimo tecnico ma con il difetto di sapere d’esserlo, ma come detto da un’interpretazione difensiva da brividi dei bianchineri.
A prescindere dai valori in campo, il Sasòl ormai crede di aver raggiunto la dimensione-sette-sorelle: i suoi tifosi sindacano sulla fallosità dei friulani, dimenticando le lecche ammannite dai vari Acerbi, Terranova, Defrel (che rischia di spezzare la carriera a Heurtaux) e soprattutto dall’hipster Magnanelli. I protagonisti in campo sono un lamento unico e continuo contro l’arbitro, in esso sostenuti da Eusebiuccio che par persino più permaloso di me; hanno lo stadio di proprietà, che ad una prima vista sembra pero costruito coi Lego (il Dacia Bunker è un’altra storia). Ricordino sempre una cosa: se sono lì è perché un grosso industriale, che si vorrebbe prender il Milan, ha deciso di regalarsi un giocattolino da serie A. Vocine meneghine dicono che, una volta affrancatosi dalla presidenza di Confindustria, Squinzi sarebbe interessato a quote rossonere, casse nelle quali egli infonderebbe ben volentieri capitali e finanze. Ne conseguirebbe il disimpegno dai simpatici sassolesi, protagonisti soprattutto di aver messo in piedi una formazione dall’ossatura tricolore. E giocando a Reggio nell’Emilia come potrebbero far diversamente?
Ma questi sono affari loro. Oggi i risultati delle formazioni di retrovia rendono il pari di Sassuolo, comunque importante, meno soddisfacente: vincono il Carpi e l’Atalanta; pareggiano Frosinone e Palermo; perdono Torino, Sampdoria, Genoa. Insomma, dai 34 punti in giù un calderone da cui uscire prima possibile.
Bagliori: con Colantuono oggi la gara l’avrebbero persa. Perché? Semplicemente perché i giocatori, questi birbantelli, non avrebbero lottato per 95’ su ogni palla come hanno fatto oggi; forse perché avrebbe insistito, l’Anziate, su un gruppo di titolari evidentemente male assortiti, dimenticando troppo spesso in panca le ali dlela libertà a vantaggio di onnipresenti levantini; sicuramente perché con la sua (apparente) calma De Canio ha infuso un po’ più di serenità in un gruppo sull’orlo di un potenziale fight club, ricostruendo almeno in parte l’autostima che deve costituire la base di un progetto solido e coerente. Certo: questa squadra ha nel proprio patrimonio genetico errori ormai sistematici, specie nella fase di ripiegamento; soprattutto una condizione atletica carentissima, per la quale dopo un’oretta di gioco la luce rossa della riserva si accende implacabile, pur in presenza di cambi di valore non inferiore ai titolari.
In tutto questo panorama, la responsabilità della società e dei dirigenti esce ingigantita: il ritiro in città, nell’estate più torrida degli ultimi cinquant’anni; la tardiva ricostruzione della rosa, con un paio di svincolati e quattro, cinque sostituzioni gennarine; la fiducia a divinis a Colantuono, mentre la classifica andava in pezzi e la squadra si spegneva inesorabilmente; soprattutto mentre il primo dei tifosi sbandierava che l’unica ragione che teneva il laziale ancora sulla panca biancanera era l’impossibilità di trovare adeguati sostituti (eppure la rosa di papabili rimpiazzi, quando domenica sera appariva sicuro l’esonero, era decisamente ben fornita). Dopo vent’anni di grande calcio, di gestioni didattiche, di esempio offerto al mondo intero, è stata un’annata condotta in maniera dilettantesca. La verità è che sotto Giampaolo e Gino Pozzo oggi la qualità della dirigenza è sufficiente a mantenere le acque calme se le cose vanno anche solo mediamente bene, o se a capo della squadra c’è un allenatore-parafulmine e profondo amante delle cose bianchenere come Francesco Guidolin. Quando invece arrivano giovani rampanti come il romano dell’anno passato, o l’Anziate di quest’anno; gente che a parole sbandiera l’amore per una terra salvo poi andarsene senza neanche una parola d’addio, o si stupisce se un quintultimo posto, cioè una formale salvezza, non sia sufficiente a soddisfare i tifosi, allora i limiti di chi deve gestire la situazione escono in maniera spaventosa. I dirigenti si sono eclissati, lasciando campo libero ad illazioni e voci, spifferi e malelingue, anziché imporre con la propria voce l’ordine e il rispetto dei ruoli. Almeno uno, ad esempio, avrebbe dovuto tutelare tutti noi, che all’Udinese siamo affezionati, dalle parole di Don Abbondio Tavecchio, vaso di coccio fra vasi di ferro che (s)parla e straparla di Udine e Udinese solo perché sa che da qui non arriveranno minacce. Vorrò vedere cosa dirà a proposito di bar incendiati e bus avversari tempestati di bottiglie di birra, notizie che arrivano dalla civilissima Torino. Provo ad indovinare: nulla. Non dirà nulla. Invocando una personalissima specie di nullius rei possessio, nulla di tutto ciò è spettanza della federazione calcio per la distanza dallo stadio.
Pasqua di Resurrezione: chi mi conosce sa che per me questa è una delle giornate più importanti, e come tale la vivrò. Avremo tempo di farci gli auguri in settimana, quando scriverò del fallimento degli sport di squadra italiani a fronte della sofferenza vittoriosa di Tamberi e del papà Marco, olimpionico a Mosca e costretto al ritiro per un camion che lo investì tranciandogli il tendine d’achille.
E dopo sarà Napoli: questi corrono, oggi hanno vinto in extremis ma giostrando novantacinque minuti nel campo avversario. Una squadra accorta il punticino lo può fare, ma tutti sappiamo che in fondo le partite casalinghe con Chievo, Torino, Carpi e la trasferta bergamasca saranno la cartina al tornasole di una stagione che già sto cercando di dimenticare.
Ultima riga per i seicento in trasferta: come sempre onore a loro. Per larghi tratti pareva l’Udinese giocasse in casa. Questa gente si merita di più. Ed incredibilmente pure i giocatori sembra se ne siano accorti.