Siamo tutti più o meno d’accordo: il calcio moderno è indigesto. Spezzatino dell’orario di campionato, spalmato in sabato pomeriggio e sera, frico-time a pranzo la domenica, poi tre, quattro gare al pomeriggio, una serale ed una o due al lunedì, chiamate (con termine derivante dal football americano della NFL) “Monday night”. E gli sponsor, le mille maglie colorate di materiale più simile a quello delle bottiglie di bibita da litro e mezzo che alle casacche anni settanta ed ottanta; e i prestiti con obbligo di riscatto, i diritti di recompra, giocatori che cambiano sei squadre in una settimana, roba al cui cospetto il presidente Borlotti della Longobarda è un dilettante allo sbaraglio.
Inni infiniti al pallone che fu, ai bagigi, ai mignon ed ai “Borghetti”; allo stadio scomodo ma poeticamente ricolmo di tifo e passione.
Io non mi tiro indietro: sono il primo vessillifero di questo modo, romantico e disadattato, di vedere il calcio. Una delle cose che mi accomuna alla giovane curva Nord di oggi, quando altre invece mi allontanano.
Ma mi fermo a pensare: siamo sicuri? Siamo certi che il modo giusto di vedere questo sport sia il nostro e non quello managerialmente (sempre?) impeccabile della dirigenza che gestisce le cose bianchenere di oggi? Non Giampaolo Pozzo, per intendersi, uno che ha candidamente (opportunamente?) ammesso che al posto della curva biancanera sarebbe uscito anche lui, sibilante, dopo la non-prestazione che costò il posto a Gioacchino da Ascoli.
Parlo di quelli che considerano l’uscita di cui sopra un atto di lesa maestà; fine a sé stesso, un gesto che connoterebbe protagonismo; che lascerebbe il tempo che trova, in un momento nel quale la squadra ha bisogno di aiuto. Tutto ciò dopo aver difeso la propria strategia marketing.
Sono un piccolissimo imprenditore; nel senso che, a differenza di coloro i quali escono con queste sentenze, unite al coro di dissenso verso i tifosi innalzato dagli schermi della televisione societaria il lunedì successivo alla gara incriminata, durante il quale un assolo avrebbe addirittura consigliato ai tifosi di ispirarsi al comportamento tenuto l’anno passato dalla curva del Verona; rispetto a questi, dicevo, io rischio del mio. Se va bene, vado bene. se va male, non ho paracadute, sbatto il deretano sull’asfalto ed il meglio che mi attenderei in tal caso sarebbe un bel “ti stà ben, cocàl!”.
Secondo la comune definizione, il marketing (o mercatismo) è quella disciplina che studia e regola le conseguenze derivanti dall’interazione fra un’impresa e i committenti. Nel nostro caso, fra la società calcistica e i supporter della medesima.
Ora, quando intraprendiamo un’attività commerciale o promozionale, questa “scienza” ci aiuta a prevedere, nel limite delle possibilità, le reazioni che la seguiranno.
Il dirigente, bravo senza dubbio, preparato anziché no dice di ispirarsi alle grandi squadre europee, mettendo al primo posto lo stadio di proprietà, la comunicazione, il “marketing” tout-court, cosa che in sé vuol dire poco.
Allora io non conosco nel dettaglio quanto accade nelle società cui si riferiscono. Conosco l’Arsenal che ho avuto modo di seguire meglio, per comuni frequentazioni con l’allora presidente Wood, nel periodo francese di Henry, Vieira, Pires e dell’amatissimo Wiltord. I gunners hanno effettivamente uno stadio di proprietà, finanziato in parte dalla Emirates ma anche dalla vendita degli esclusivissimi appartamenti sorti al posto del vecchio impianto. Pur essendo però una delle squadre storiche della Premier, non ha mai perso la connotazione di squadra del quartiere, Holloway ad Islington. I tifosi si trovano nei bar con il cannone fuori, sempre quelli, e la proprietà russo-americana non si è mai sognata di cambiare una virgola in una storia lunga 130 anni. Non troppo più della nostra.
Dunque, tornando a bomba sono state dette cose vere, altre meno corrette.
Sì: alla tifoseria è stato dato uno stadio nuovissimo, che doveva essere un fortino ma da quando hanno deciso di chiamarlo come una marca di auto romena ci vince pure lo Spezia.
No: la comunicazione con i tifosi non è al centro della strategia della società; altrimenti non dovrebbe intervenire il Paròn a sancìre che la più educata delle proteste, il silenzio e l’uscita, sono atti dovuti e non “fini a sé stessi”. Anni fa ogni santissimo convivio promosso dai gruppi organizzati di tifo era accompagnato da due, tre giocatori, che in quelle occasioni creavano con i sostenitori un legame quasi indissolubile. Oggi, non so se per decisione societaria, o perché questi ragazzini che arrivano dai quattro angoli del mondo preferiscono stare a casa con i videogiochi, o per entrambe le cose avere l’onore di pagar la cena ad un giocatore, in cambio di qualche foto e poche firme è diventata occasione specialissima.
No: i protagonisti non sono i giocatori, tantomeno i dirigenti ma i committenti, alias i tifosi. La tifoseria non può essere marginalizzata: non sta al centro del villaggio, È il centro del villaggio. I violenti, e a Udine non ce ne sono, debbono essere considerati persone non grate; ma chi, pagando un abbonamento allo stadio o alla pay per view, dimostra fiducia incondizionata nella squadra e nella società, non può essere considerato un fastidio, una mosca che vola sul naso, ma l’unico ed ultimo responso della riuscita della strategia.
No: non è vero che trent’anni di serie A e diverse qualificazioni Uefa debbono costringere i tifosi a starsene zitti. Anche quest’anno sono accorsi in massa ad abbonarsi, fra mugugni e dubbi hanno messo in prima posizione l’affetto e la fede nei colori, e quasi undicimila assegni in bianco, di questi tempi, sono tanta roba. Quindi, prima di parlare in codesta maniera dei tifosi, pur di assurgere a torri non tanto eburnee attorno alla “proprietà”, parlateci, con la proprietà: magari contate fino a tre, ascoltate chi questa storia recente l’ha costruita, ripensateci e solo dopo parlatene. Fidatevi.
E infine no: la Vostra strategia marketing non è del tutto azzeccata. Perché, colgo fior da fiore solo tre recentissimi avvenimenti, accattivarsi la simpatia della tifoseria: a) pensando che in serie A basti gente come Kelava, Brkic, Insua e Iturra per fare bene; b) offrendole conducatori di vaglia come Colantuono o Iachini; c) cedendo prospetti come Verre a un milione su suggerimento di cui al punto b), importando decine di dimenticabili giocatori; beh, mi sembra un po’ azzardato e quantomeno ottimistico.
Sì: saremo sempre qui, e lo saranno anche i sostenitori che sabato sera in cinquecento sono sciamati allo “stadium” per salutare la prima di Gigi Delneri (unica, vera mossa marketing azzeccata) in una missione impossibile. Ma Voi, se anche pensate di avere ragione, prima di rilasciare dichiarazioni provate a studiarVi Iacopo Badoer, noto librettista seicentesco, e quanto scrisse nell “Ulisse” (ormai divenuto un aforisma). Credetemi, meglio così.