Poco da dire: le due gare disputate in casa dai bianchineri contro Internazionale e Roma, culminate (in maniera diversa) in due sconfitte, dicono che l’Udinese a quel tavolo ancora non ci può stare.
Lo dico con sicumera: perché se dopo la gara contro i nerazzurri predominava il rammarico per quel che doveva essere e non è stato, ieri la truppa di Spalletti è entrata in campo facendo l’Udinese, attaccando il campo con un centrocampo che ha scoperto ancor di più il nervo-Kums, spesso al centro delle discussioni, con il totem Radja Nainggolan che definire “guerriero” è limitativo; il belga, infatti, ha difeso ed attaccato come fosse, per lui, la partita della vita, accoppiando agonismo e tecnica e mostrando per quale ragione metà dell’Europa che conta gli stia facendo la corte.
L’Udinese ci mette impegno, sbaglia dietro quando non segue il taglio del capitano giallorosso sul tiro chirurgico che passa sotto le gambe di Danìlo e diventa match-point, e questo (Peres-Strootman-Nainggolan) è schema spallettiano conosciuto; soprattutto si scopre vieppiù sterile in avanti, dove Théréau è chiaramente in debito di forma, mentre sul centravanti colombiano di proprietà del Napoli non ho più un’opinione e non mi faccio di certo sballottare fra le due fazioni, quella “lotta e s’impegna” e l’altra secondo cui “non la centra mai, la porta”.
Delneri, mio idolo assoluto (e lo dichiaro dalla vigilia della gara di Torino contro la capolista), sa perfettamente che il campionato bianconero ha acquisito il primo obiettivo, quello della riconferma: impossibile, infatti, che una delle tre ultime in rango possa, di qui al termine della stagione, tenere la media di 1,5 punti a partita che le permetterebbe di meritarsi la salvezza; e in questo caso, se domenica prossima si capitalizzerà qualcosa in più essendo pari impegno e gioco, si metterà a proposito la parola “fine”. L’Empoli infatti, e mi porto avanti col lavoro, ha subìto un paio di reti meno dei bianchineri: ma se consideriamo l’Udinese sterile in attacco, i toscani di Martusciello sono decisamente asfittici. Undici volte a segno, una ogni due gare, è media da retrocessione al netto, però, di un campionato improbabile come la serie A a venti squadre.
La Roma di ieri non è parsa gigante, né impenetrabile: ma la grandezza delle squadre-top, secondo me, sta nella capacità di capitalizzare al massimo la prima disattenzione avversaria: perché di questo si parla. È vero che Edin Dzeko non è parso lo stoccatore principe spesso incensato durante un girone d’andata decisamente sopra le righe, ma in netto calando di forma e precisione; ma a quel punto i giallorossi controllavano l’Udinese, secondo me anche in debito di fiato in suoi elementi fondamentali come Strootman. La cosa buona è che i domestici obiettivamente le occasioni per equalizzarla le hanno avute: bravo nel primo tempo il portiere polacco Sczeczny (i cognomi da codice fiscale sono un invito all’autarchia), addirittura pari al proprio collega greco-friulano nel ribattere bravamente un’incornata di Felipe (Karnezis era pronto, nel primo tempo, sull’unico spunto di uno spento faraone); meno bravi Théréau e Perica; non pervenuto Zapàta, che chiude con zero tiri in porta l’ennesima prova incolore.
Bravissimo Rodrigo DePaul: ci prova, lotta, alle volte ci mette qualità che dalle parti di Delneri è merce rara: ma se Jankto resta guardingo a curarsi un arrembante (e fallosissimo) Bruno Peres, Kums e Fofana mettono assieme la peggiore prestazione combinata dell’anno, sbagliando spesso e perdendo il confronto diretto con il centrocampo giallorosso, decisamente superiore (ma lo si sapeva).
Ha ragione Delneri: alla settima giornata la Lazio passeggiava a Udine ed oggi mastichiamo amaro per una sconfitta contro la seconda forza del campionato; quantomeno un passo avanti gigantesco c’è stato. Ci basta? Neanche per sogno.
Ma la società lo deve sostenere: l’Udinese storicamente non è squadra agonistica, dura, pugnace; è piuttosto tecnica, romantica, oserei dire una contessa per tre anni però non più la stessa. Ed ha ragione chi sostiene che la metamorfosi ha una genesi lunga quattro anni, mascherata dalle prodezze di Di Natale e dalla sua ezizialità in fase realizzativa. È ora di cambiare, e mi pare ci siano arrivati anche ai vertici della dirigenza: occorre gente giovane, motivata ma che soprattutto abbia in sé i semi della capacità di giocare al calcio. E tutto ciò evitando, quanto possibile, operazioni meramente mercantili che hanno parcheggiato a Udine pedatori e calcianti provenienti da cinque continenti, ma sbarcati nelle belle plaghe nordestine senza voglia, consapevolezza, spesso capacità e rispetto per la nostra storia.
Qualcosa di buono c’è, e Gigi l’Aquileiense lo sa e ci sta lavorando in prospettiva (perché non voglio neanche pensare che alla fine Delneri venga accomodato alla porta a vantaggio di una delle ultime, sciagurate scelte in panca): DePaul può diventare un ottimo giocatore; Perica deve imparare a correre meglio, e non farsi accecare dalla bramosia e dalla frenesia di metterla dentro quando, come ieri, ha palla libera a due passi dalla rete; Ewandro, come dice l’amico Roberto, deve irrobustirsi ma il cambio di gioco per Théréau ieri è patrimonio di chi i piedi per calciare li sa usare. In porta fra Meret e Perisan (detto che probabilmente ad Oreste darànno la gioia di una squadra da Champions) c’è l’imbarazzo della scelta; Samir sta crescendo più in fretta del previsto, e qui e là ci sono spunti giovani che fanno ben sperare, a partire da Kevin Lasagna, acquisto ufficializzato ma a disposizione del mister a partire dalla prossima stagione.
Ed allora amen: abbiamo provato a vedere se contro le big, come successo in passato, l’Udinese potesse giocarsela alla pari: come gioco non siamo lontani, ma in quanto a pragmatica capacità di capitalizzazione, purtroppo, siamo ancora lontani. Pazienza: sarebbe peggio non fossimo in grado di praticare un calcio guardabile, ma questo è patrimonio del passato.
Di Damato, come vedete, non parlo: quel che ha fatto è esattamente quel che mi attendevo da lui. Punto.
Un ultima annotazione: un ringraziamento alle due tifoserie per esser state vicine alle loro squadre senza per forza dover insultare quella avversaria. In particolare, gli ospiti hanno urlato il loro attaccamento ai colori fino al 93’ esattamente come la curva Nord. È questo lo spettacolo che mi piace: comunque decisamente meglio che essere indicato come “cimut” col dito medio.