Due studi analizzano il ruolo delle azioni motorie nella comprensione del linguaggio
Cosa c’entrano i movimenti con la comprensione del linguaggio? Il modo in cui capiamo le parole che descrivono azioni (camminare, saltare, danzare…) potrebbe, secondo alcuni scienziati, sfruttare l’attività motoria cerebrale corrispondente ai movimenti. Due studi che hanno coinvolto scienziati della SISSA di Trieste, pubblicati a breve distanza su Cortex e sul Journal of Cognitive Neuroscience, hanno esaminato questa ipotesi da punti di vista diversi. Nel complesso dai due lavori emerge un’interpretazione soft dell’ipotesi di partenza: la comprensione è in parte embodied (incarnata) e cioè può essere facilitata o resa più robusta dall’informazione motoria, ma questa non è una condizione necessaria.
Correre, afferrare, mangiare: quando comprendiamo parole come queste il nostro cervello si attiva anche nelle aree preposte a guidare i movimenti del corpo. Per questo motivo alcuni scienziati hanno ipotizzato che per capire le parole che si riferiscono ad azioni (action-related, AR) il cervello ne simuli il processo motorio. Due ricerche che hanno coinvolto scienziati della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) hanno messo alla prova quest’ipotesi da due punti di vista radicalmente diversi.
Nel primo studio, pubblicato sulla rivista Cortex, sono stati osservati 12 pazienti con una lesione sinistra (che hanno spesso problemi di linguaggio, ma anche di movimento). I soggetti hanno eseguito dei test di comprensione sugli “emblemi”, cioè gesti come per esempio salutare con la mano o fare “ok” con il pollice. “Gli emblemi possono essere considerati la controparte gestuale delle parole, perché caratterizzati da una relazione convenzionale e arbitraria tra un segno e un significato ben preciso” spiega Liuba Papeo, primo autore di entrambi i nuovi paper. “Quello che abbiamo osservato è che i pazienti con lesione potevano avere difficoltà a comprendere il loro significato, ma non a riprodurli o viceversa. Questa ‘doppia dissociazione’ dimostra che, nonostante le analogie tra parole ed emblemi, il sistema per la produzione manuale di questi gesti è distinto da quello alla base dei processi di comprensione e produzione delle parole”.
Il secondo studio, al quale ha partecipato anche Barbara Tomasino, dell’Azienda Ospedaliera-Universitaria di Udine, è stato pubblicato sul Journal of Cognitive Neuroscience e partendo da premesse completamente diverse dimostra che la rappresentazione motoria potrebbe essere più probabilmente attivata da fattori di contesto piuttosto che dalla semplice natura motoria delle parole. “Quello che abbiamo visto, questa volta su individui sani, grazie a una risonanza magnetica” spiega Raffaella Rumiati, professore della SISSA e fra gli autori di entrambi i paper, “è che in condizioni controllate sperimentalmente l’attivazione motoria si registra anche per parole non-AR, basta che sia stato stimolato prima un contesto motorio”.
Questo potrebbe significare che il contesto in cui si incontra una parola prevale sul significato semantico. “Faccio un esempio,” precisa Papeo, “anche la parola “amare” molto astratta, incontrata in un determinato contesto può assumere un significato molto concreto riferito ad un’azione (abbracciare..)”.
“Abbiamo scelto due approcci così diversi come una sorta di controllo incrociato sulla validità delle nostre osservazioni: gli studi di neuroimaging infatti si basano sulla correlazione fra osservazioni (la prestazione nei compiti e l’attivazione cerebrale) ma non danno modo di trarre conclusioni causali, che invece sono possibili con gli studi neuropsicologici con pazienti colpiti da lesioni selettive”, ha commentato Raffaella Rumiati.