Usando delle fibre ottiche “inusuali” in un modo del tutto nuovo, un team internazionale di ricercatori guidati dalla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, ha osservato dettagliatamente la risposta alla luce dei bastoncelli, cellule fotosensibili della retina, dimostrando che l’intensità della risposta varia a seconda della zona in cui la cellula è colpita. La ricerca oltre ad ampliare le conoscenze sul processo che trasforma la luce in segnale elettrico nervoso introduce anche un nuovo metodo sperimentale che in futuro potrebbe avere applicazioni importanti nell’optogenetica (il controllo dell’espressione genica con la luce). La ricerca è stata appena pubblicata sulla rivista Proceedings of the National Accademy of Sciences
“Immaginate un piccolissimo ‘occhio di bue’, un po’ come quelli che si usano in teatro ma con un fascio di luce del diametro di pochi nanometri, che illumina in un punto lasciando tutto il resto al buio,” spiega Monica Mazzolini, ricercatrice della SISSA, “Ecco cosi funzionano le fibre ottiche che abbiamo usato nei nostri esperimenti”. Mazzolini, prima autrice di una ricerca appena pubblicata su PNAS, si è letteralmente chiusa in una “camera oscura”, illuminata solo con luce infrarossa, per stimolare con questi fasci di luce strettissimi dei bastoncelli, cellule fotosensibili della retina (per la visione notturna) in vitro. Nella ricerca Mazzolini e colleghi hanno osservato che a seconda del punto della cellula che viene colpito dalla luce, si ottiene una diversa risposta elettrica del neurone.
I bastoncelli sono fatti proprio come un bastoncino a cui è attaccato il corpo della cellula, da dove si dirama l’assone, l’estroflessione da cui il segnale elettrico parte verso altri neuroni nel sistema nervoso per diventare percezione visiva. Il “bastone” (detto segmento esterno) è composto da una serie di dischi impilati uno sull’altro che contengono ciascuno molti tipi di proteine, in particolare la rodospina, il pigmento sensibile alla luce. Mazzolini e colleghi hanno visto che se si stimola la punta del bastoncello la risposta è più debole di quando si stimola la base, con un gradiente di attivazione che va da uno all’altro estremo.
“il gradiente è probabilmente dovuto al fatto che i dischi che compongono il bastone sono costantemente soggetti a un processo di rinnovamento: quelli sulla punta sono i più vecchi e quelli sulla base più nuovi”, spiega Vincent Torre, professore della SISSA che ha coordinato lo studio.
Più in dettaglio…
Oltre ad approfondire le conoscenze sul processo di “trasduzione” dello stimolo visivo, e cioè la trasformazione della luce prima in un processo biochimico e infine in un potenziale elettrico nervoso, il lavoro introduce una nuova metodologia e l’uso innovativo di un materiale che in futuro potrebbe avere largo impiego in optogenetica.
“Abbiamo abbinato una tecnica classica, l’’elettro a suzione’, cioè il risucchio di un’unica cellula all’interno della punta di un elettrodo di vetro, con l’uso di fibre ottiche” spiega Mazzolini. Le fibre ottiche usate sono particolari: “Di solito si usano fibre cave, noi invece abbiamo un tipo ‘tappato’, che ci ha permesso di illuminare in modo estremamente confinato, come non era stato mai fatto in precedenza”.
L’idea innovativa (per cui è in corso anche la richiesta di un brevetto) è avvenuta per caso: “in realtà stavo facendo delle prove con dei materiali ‘grezzi’ per mettere a punto alcuni dettagli del setting sperimentale,” racconta Mazzolini, “quando ho osservato una risposta delle cellule del tutto inaspettata. Da lì poi abbiamo approfondito e scoperto che potevamo usare queste fibre in un modo estremamente proficuo”.
Con questo materiale i ricercatori hanno potuto osservare anche nel dettaglio la risposta della rodopisna, la proteina-pigmento alla base della visione, e della forfodiesterasi, per questo pensano che potrà essere utile in futuro in campo optogenetico. Nell’optogenetica l’espressione dei geni viene controllata con impulsi luminosi e dunque le fibre ottiche usate da Mazzolini e colleghi potrebbero essere usate, oltre che su proteine come la rodopsina, anche sul DNA. Allo studio, che nasce nell’ambito del progetto Focus, finanziato dall’Unione Europea, ha collaborato anche Giuseppe Facchetti della SISSA.