Non ho scritto dopo la vittoria, bellissima e soffertissima, contro la Sampdoria.
Per due ragioni.
Ho gioito, sofferto, imprecato (non come Rolando) durante i 94’ di gioco; ma prima, durante e dopo non ho potuto nascondere la tristezza.
Per un amico col ciuffo che se ne andava, mentre la curva voleva dirgli di tenere duro, quel campione di carattere, grinta, tempra e comportamento ch’era sempre stato.
Per quarantatré persone volate giù da un ponte fattosi zucchero a velo, quel ponte che chi fa il nostro mestiere ha percorso mille volte. E chi, come me, non ha i blucerchiati nel cuore avrebbe potuto scivolare nel sapido sfottò. Per una volta inaccettabile.
A bocce ferme posso dire (io sì!) che avevo ragione a predicare calma. Magari oggi a Firenze si perde, ma di sicuro non si scende al Campo di Marte dell’Artemio Franchi come le vittime sacrificali, dimesse e involute, presentatesi troppo spesso di recente.
Perché?
Solo due giorni fa ero in centro, girando per uffici. E mi sono (dopo tanto tempo) perso per le piazze della mia città.
La mia città.
Per lavoro negli ultimi diciassett’anni ho girato il mondo: sessanta paesi, tanti popoli e lingue diverse. E tradizioni, usi, campanili differenti. Ma…
Ma la mia città è la mia città. Perché è mia, mi ha visto crescere e ogni volta, da studente e poi da grande, tornandovi dai miei buenos retiros esteri mi si stringe il cuore. Si stringe e scoppia.
Lego a San Giacomo, a Libertà, a Marcjat vieri (vieli, per qualcuno) o Poscolle attimi vissuti da bambino, da adolescente; alla vecchia UPIM con nonno (peccato vederla demolita, spero risorga più bella che pria), alle vasche con la ragazzina dell’epoca, insomma a quelle pietre, a quei locali e negozi (molti tristemente chiusi) lego la mia crescita.
Ed altrettanto faccio col pallone e la squadra che meno indifferente m’appare: ricordo flash di Giacomini e Galeone in campo, inizio seriamente a goderne da quella scorribanda a Mantova nel 1977; ricordo volti, voci, sorrisi e imprecazioni di quei giocatori, e di quelli a venire. Chiudendo gli occhi risento le atmosfere e gli odori di quelle giornate, fra tagli di vino consumati attorno a me in bicchieri di plastica, sigarette immancabilmente amare e noccioline, e mandorle confezionate a mano in sacchetti chiusi da colorati nastrini.
Anch’io, come tutti voi, non ho potuto godere di quanto le ultime stagioni abbiamo rimandato dai campi d’Italia e dal tante volte violato Friuli, anzi Dacia; è per questo che anche nella sconfitta di coppa Italia, e ancor di più nelle due gare di campionato ho rivisto la mia squadra. Che può vincere o perdere, ma nella quale tutti giocano per tutti, e l’entrenadòr dà ai propri giocatori un’identità che può piacere o meno, ma è un’idea di gioco che a Udine non vedevo dai tempi di Pasquale Marino.
Ed allora la finiscano quelli bravi, i realisti più del re; i vaticini di navi colanti a picco, ma di gare dal vivo quest’anno ne hanno viste poche.
La finiscano: divertiamoci, perDio! Vi invito, li invito a soffermarsi sul fatto che la società ha scelto un uomo vertical a dirigere la giostra, uno che di calcio ne mastica e ne capisce, e che sente la squadra come sua. Alla faccia di chi sostiene che la rosa gli sia stata fatta cadere dall’alto: questo è un signor dirigente, con un pedigree che deve tacere tutte le malebocche.
Incluse quelle su don Julio: ho ammesso di non conoscerlo, all’inizio, e di esserne perplesso ma ciò non vuol dire automaticamente aver assunto una sòla.
L’inizio di stagione dà torto a chi giudicava pessima la rosa dell’anno passato; il problema era la mancanza del capo di cui al capoverso precedente, e alla presenza di alcuni (ormai) intrusi uno dei quali ha dato prova di sé, ieri sera, sulla seconda rete nerazzurra. Aggiustata e integrata la squadra appare quadrata; oggi la coppia-Oranje avrà vita durissima contro Cholito, Federico e Eysseric ma alla fine, vedrete, ce la giocheremo.
Solo questo, chiedo a chi commenta le vicissitudini e le gioie dell’Udinese: seppellite il vostro rancore verso una società che non sempre, ed è vero, ha fatto del tutto per farsi piacere; il vostro rammarico per tanti abbonamenti ché le vostre invocazioni sono cadute nel vuoto; lasciamo lavorare Don Julio, e a Natale trarremo le somme.
Intanto io, due giorni fa, ho ritrovato la mia città. E da qualche tempo la mia squadra. Voi? Beh, fate come volete.