Quinto canto dell’Inferno dantesco, verso centodue.
L’Alighieri è riuscito a descrivere perfettamente la mia visione del pallone bianco e nero, di questi tempi. Per anni, almeno tre, ho cercato di convincermi che un seppur minimo barlume di giuoco del pallone fosse sufficiente a farmi stare felice, il risultato essendo del tutto ininfluente. In parte è vero: però sette pappine pesano come un macigno sulla presunta curva di crescita del team diretto mirabilmente dall’Anziate scarsicrinito.
Oltretutto, come già fecero i predecessori, Colantuono sta continuando l’opera pedissequa (rispetto a quale testo? O a chi? Fatevi domanda, datevi risposta) di distruzione delle glorie più o meno recenti, sgranando gli occhi di fronte alle critiche ed esclamando fra lo stupito e l’infastidito “ahò, noi semo l’udinese, abbiamo ‘ncontrato ‘na grande squadra, non sarà mica sempre così…”. Quasi a confermare, asseverare, vidimare il passaporto scadente di una piccola, una provinciale come la definiscono alcuni improvvidi commentatori e financo i gerenti la società, che ad andar bene contro le sette sorelle attuali ne vince una su venti.
Io in parte giustifico Colantuono: è arrivato stamattina, l’Udinese la conosceva perché la incontrava due volte l’anno con l’Atalanta; cosa ne può sapere, lui, delle serate magiche contro l’Ajax o con il Bayer di Leverkusen? Lui stava difendendo gloriosamente i colori della Maceratese. Ma noi sì: e perdere 0-4 in casa contro l’Inter pur valida di questi tempi può bastare ai tifosi veri. Non a cantori come me, perennemente menzionanti le proprie radici ben piantate nel passato.
Leggo come molti commentatori pensino che la difesa titolare più Badu in campo avrebbero guadagnato quantomeno un pareggio, sancendo la responsabilità totale addossata a Domizzi e Fernandes (specialmente sul primo) ma anche una certa dose di miopìa. A Firenze questi tre importanti pedatòri c’erano, eppure di reti al passivo in meno se n’è presa una sola. Da una squadra, peraltro, che di lì a sette giorni sarebbe stata spazzata via dalla Juventus a Torino (un tiro in porta, il rigore, effettuato da una delle squadre più offensive ma anche forse più stanche del campionato contro una decina dei rosastellati).
Di cosa stiamo parlando, allora?
Dell’udinese, non più tanto Udinese. E siccome questi ragazzi ci stanno mettendo voglia e impegno, siccome le gare sono preparate con attenzione ma con risultati proporzionali solo a voglia e forza degli avversari, dato che Viola e Inter hanno segnato senza quasi mai spingere, dunque i bianchineri sono questa cosa qui. Una squadra media, spesso mediocre e ancora più di frequente intimidita. Qualità latitante, che sarebbe in via di miglioramento con il trentaduenne Diamanti (in uscita dal Watford) o forse il guerriero Nocerino, partenopeo rossonero appena meglio di Iturra ma tutto sommato neanche poi troppo diverso. E intanto i calabroni londinesi si portano a casa Iturbe e Zaza, giovani e forti.
Quindi capisco. Non me la prendo, anzi!, per le pagine appassionate apparse sul quotidiano di riferimento, grondanti lacrime di sentimento e miele, in cui si spergiura (e chi sono io per dubitare?) amore e fede nei colori da parte dei gestori, assicurando che il nome dello stadio rimarrà il medesimo: siamo una cosa sola, un’anima sola, zumpappà.
Fuori i Kleenex.
Piccola e sommessa osservazione: chiamare lo stadio di Rizzi “Friuli” non è una gentile concessione, e se me la vendono come sofferta decisione frutto di numerose ed insonni notti di passione (nel senso di patimento morale), se permettete sorrido. Del ferro, del cemento, delle praline colorate messe al posto dei seggiolini mi interessa zero. E qui si materializza l’equivoco.
Troppe persone, in alto ed attorno alla società biancanera, pensano (opinione rispettabile) che lo stadio sia la struttura che accoglie spettatori, in maniera più o meno confortevole, durante le gare calcistiche.
Secondo me no. Quando si parla di chiesa, io penso ad ecclesìa, ἐκκλησία, un’assemblea di persone. Così lo stadio per me sono le mille e mille facce, corpi, voci, urla, spesso bestemmie che hanno spinto i colori biacca e carbone dal settantasei ad oggi. Sono mio nonno, mio papà, i vostri genitori e parenti; sono i ragazzi che in curva rullavano i tamburi e ci rompevano i santissimi con i fumogeni dai colori più improponibili, quelli che “il nostro simbolo è la mela morsicata”. Sono i cinquanta pullman a Torino, anno 1981, offerti da Sansòn. Sono un telo di plastica lungo quattro metri con i buchi per le teste steso sopra una decina di noi a Brescia, seduti su blocchi di cemento forato: stesso anno, pareggiammo 1-1 sotto un torrente d’acqua incessante e freddo.
E questo stadio lo puoi accomodare dovunque, nell’attuale bellissima e futuribile Arena come sulle curve in erba da cui guardammo Vagheggi rovesciare contro la Samp: sì, perché (vigilia di Pasqua) Sansòn regalò biglietti gratis a tutti gli studenti delle elementari di Udine, salvo accorgersi tardi che noi bimbi non ci saremmo stati (lo stadio era pieno) e ci accomodò sul prato della Sud…
Credete mi freghi qualcosa di coperture e seggiolini? Un’emerita se*a.
Ma il calcio, lo stadio, il pallone sono io e non chi cerca di ammazzarmelo. E sette reti in due gare sono un calcio al mio calcio, dritto nel sedere. Oggi vige la modernità, estetica epica etica ed etnica (vent’anni di Legge Bosman) e il mio diritto di asilo viene a cadere. È anche per questo che ho deciso di rimettere il mandato come firma di un giornale online roseamente votato all’attualità per ritirarmi nel mio piccolo cantuccio. Di ricordi e, se permettete, di rifiuto di parte di questo futuribile football trepuntozero. Anzi, dopo gli ultimi giorni settepuntozero.
FRANCO CANCIANI.