Ci sono gare che lasciano cantòri come noi ammutoliti di fronte allo schermo, ove una pagina rimane bianca anche in virtù dell’attonita eredità dell’agonismo intravisto. Uso come titolo una parafrasi del Giolindo nazionale, nella speranza che mi aiuti a commentare questo no fun.
Sgombriamo il campo da ipotesi e dubbi: i bianchineri oggi in campo hanno dato il tutto, fors’anche di più, per superare gli avversari. Non ci sono riusciti, nello sport ci sta anche questo, ma non parlatemi di sfortuna.
Perché i solòni del web e della televisione societaria, che mi sbandierano i pali a difesa di una “prestazione”, debbono per coerenza anche ammettere, dunque, che domenica passata a San Siro i Santissimi Ermagora et Fortunato han tenuto la mano canonizzata sulla testa dell’Anziate, permettendo il pari: e non sostenere che a Milano c’è stata una grande prestazione difensiva.
Oggi la gara andava, se non vinta, almeno non persa. Perché dopo un inizio dal predominio chiaro rossoblu, periodo nel quale Lodi perdeva tre palle sanguinose a ridosso dell’area, l’Udinese s’era pure installata dall’altra parte del campo, rischiando di segnare con Kuzmanovic (palo, Armero ingannato dal rimpallo sul montante) ed in un altro paio d’incursioni in avanti.
Si presentavano nella ripresa, i bianchineri, come un’ora prima, lasciando il pallino ai felsinei per poi equilibrarla nel corso della gara. La rete di Mattia Destro, causata da un comico tamponamento Danìlo-Heurtaux (altrimenti il dieci ospite avrebbe segnato al massimo col gesso sulla lavagna, vecchio detto friulano tradotto alla meglio), spariglia una gara destinata allo zerazzero finale, un pari che più salomonico non si sarebbe potuto. Da lì in poi l’Udinese prende il palo con Felipe, spreca una rete clamorosa con Théréau ed un’altra con Zapata, si attenderebbe qualcosa di più dal Totò nazionale (ormai sempre più ex-giocatore e motivatore dalla panca) ma è inconcepibile come una squadra di serie A faccia tale fatica a concretizzare la mole di rantoli offensivi proposti.
Allora, com’è successo? Asseveriamo la teoria sfortunistica societaria (e ci sta, che la mettano su ‘sto piano, in fondo) oppure cerchiamo di capire?
Pur non essendoci abituati, ci proviamo, a comprendere. Un gesto di Colantuono, uno di Donadoni.
L’Anziate, sullo 0-1, toglie Théréau e mette Di Natale, guai a cambiare lo schema ché evidentemente sennò i suoi si confondono.
Il bergamasco, sullo zero a zero, inserisce Floccari in vece di Donsah, a costituire un tridente offensivo ancor più ficcante.
I giochi si fanno qui: nulla va più. Esattamente un girone fa Donadoni stazionava a Udine attendendo una chiamata che beckettianamente non arrivò mai. Preferirono, i societari bianconeri, rimanere fedeli alla linea colantuoniana sposata in estate. I risultati sono manifesti, recitate dalla classifica e dal campo.
Non ho preconcetti contro il tecnico laziale: ci ho distrattamente parlato, la scorsa estate, ed è persona onesta e tutto sommato corretta. Ma gente come Mou non lo è, e vince i trofei; motiva le squadre; fa giocare da Dio le proprie formazioni. Ma appunto in virtù della sua onestà, dovendo usare la stessa moneta gli dico che questa è la sua Udinese, non la mia. La sua, non la mia.
Sono un pavido, probabilmente: ma non smanio per squadre agonisticamente furoreggianti ma neanche modestamente impostate. Mi fanno pena undici giocatori, specie se indossano i colori bianchineri del mio cuore, che vagano per il campo senza un minimo di costrutto. Provo infinito dolore nel sentire un’infinità di “Ahò” arrivare dalla panchina, in vece di precise indicazioni tattiche. Sento male dentro nello scorgere multicolorati scarpini da calcio avere meno precisione di nere pantofole d’oro indossate da dopolavoristi amatoriali.
Il calcio di Colantuono è sofferenza, botte prese e date, poca qualità; il calcio di questa Udinese, a immagine e simiglianza del supposto tecnico che la guida, è solo sofferenza, neanche botte e zero qualità. Fossi al posto dell’Anziate, me ne andrei in sala stampa a dire che, tutto sommato, Udine non è Atalanta provincia di Bergamo, che ormai faccio fatica a dire sempre “sì” anche se mi spacciano per fenomeno mediorientale un giocatore che, per imporsi, soffre quanto parlare con i compagni in una lingua che non sia quella natìa; insomma mi alzerei dalla comoda poltrona e, come Fernando Rey, direi a tutti che mi sono rotto di brutte figure (anche se molta causa è mia), prenderei il corposo contratto e lo straccerei. Amici come prima. Ma in Italia non si dimette nessuno, figurarsi un allenatore che commenta una gara come quella odierna dimenticandosi dello sport, abbassandosi al livello rossonero di settimana scorsa, parlando di sfortuna e risultato bugiardo.
Bugiardo niente: Donadoni se l’è meritata, ha costruito un gruppo solido in cui anche gente come Morleo e Maietta, Rizzo e il vecchio Brighi fanno la loro porca figura, e il portiere di rilievo, Da Silva, si disimpegna bene contro le schiere bianchenere. Colantuono invece no: per l’incapacità endémica di leggere le partite, di cambiare le meccaniche, palla a Danilo e lancio lungo; per l’incapacità endémica di far punti, da due mesi a questa parte, se non ponendo un pullman davanti a Karnezis. A lui delle mie parole interesserà zero, dato che sono un amateur e lui con la stampa professionale locale ha costruito un idilliaco e complice paradiso; ieri ha parlato di gara della svolta, e sarà la decima volta che lo profetizza quest’anno. Evidentemente la sua squadra non svolta perché non ce la fa; perché è stata costruita disastrosamente a iniziare dal suo tecnico, quasi qualcuno provasse un sottile piacere a rischiare la serie cadetta in una stagione di assoluto riposo.
Domenica prossima si va a “Genoa”: i rossoblù sono usciti dal momento negativo e, soprattutto, giocano al calcio. Poi toccherà all’Hellas Verona di Delneri, di scena al Sandero Arìna di Udine. Il trittico si concluderà al Matusa, catino ribollente di tifo gialloblu frusinate. Colantuono, a Lei: deve fare sette punti. Sette: non uno di meno. E non cavi fuori le solite mani protese in avanti, “gare difficili, campi ostici, avversaria in palla, ci manca quel pochino di convinzione”. Bla, bla, bla: allenatevi, giocate al calcio, fate presto i trentacinque punti che vi portano dalla parte della verità. Dove vorrei vedervi, una volta salvata la squadra, mi permetta di tacervelo: sono pur sempre una signora. Vi consiglio, se ne avete il tempo, di leggervi le cinque poesie sul calcio di Umberto Saba… Ispiratevi.
Ma nel mio empìreo, accanto a Zac, a Giacomini, a Spalletti, a Guidolin, glielo anticipo: difficilmente ci sarà posto per lei.